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Cosa ci lascia Alessandro Leogrande

Alessandro Leogrande a Roma, novembre 2015. (Rino Bianchi, Rosebud2)

Nella sua curiosità aperta e quasi illimitata appariva sempre serio, Alessandro Leogrande. Queste qualità fondamentali hanno nutrito la tenacia della sua ricerca, con una cura meticolosa per i fatti e le parole che dovrebbe essere propria di chiunque comunica, informa, narra e che invece è diventata così rara ed equivoca. Così aveva condotto le sue inchieste narrative più importanti, quella sul naufragio della Kater i Rades e quelle sulla sorte degli oppositori ai regimi sudamericani. Questa attenzione sembrava portarla con sé sempre, nel suo lavoro e nei suoi rapporti, nello studio e nella conversazione.

Tanti in queste ore stanno parlando, in rete e nei vari luoghi sociali in cui si prova a elaborare il lutto, della gentilezza di Alessandro e della sua forza. Sarà banale dirlo così, ma era la cosa che più colpiva in lui – e colpiva tutti, evidentemente: la capacità di unire radicalità e mitezza. Oltre all’apertura mentale – qualcosa di più della curiosità, dunque – che lo portava ad affrontare con lo stesso sguardo, serio e accurato, problemi diversi: anche a scorrere solo gli interventi per Internazionale ci sono i suoi interessi di fondo (l’emigrazione, il lavoro, la nostra questione meridionale, l’America Latina) accanto alla passione per la scrittura e la sua natura ibrida (il cosiddetto reportage narrativo) e per la politica.

Lo animava innanzitutto la spinta a restare umani, a non cedere un millimetro all’odio

A Radio3 – dove era arrivato dopo il suo primo, seminale libro su Taranto, Un mare nascosto – aveva cominciato con i racconti del G8, da Genova e dalla scuola Diaz, nel luglio del 2001, aveva poi lavorato ancora sulle cose che più lo coinvolgevano – le tragedie dei profughi nel Mediterraneo, le dittature e gli stermini degli oppositori nel Cono sud – ma aveva scritto anche cicli sul calcio e i suoi più fantasiosi protagonisti, trattati con la stessa identica cura che dedicava a temi e storie “maggiori”. E aveva proposto, con una coerenza che solo ora appare evidente, una serie di ritratti su figure intellettuali di cui ci proponeva di valutare l’eredità: Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti Bianco, Carlo Levi, Rocco Scotellaro fino al gruppo di Tempo Presente (con Nicola Chiaromonte, in una puntata che non ha avuto tempo di preparare), a Pier Paolo Pasolini e Alexander Langer.

Bisognerà ripensare alla profondità della sua esperienza intellettuale e umana – così intensa e larga, in così pochi anni. Ma due cose sembravano animarlo. Anzitutto la spinta a restare umani, a non cedere un millimetro all’odio, al disprezzo per l’altro, il povero, lo straniero, a non temere di praticare la solidarietà e la compassione (anche se, aveva scritto in uno dei suoi interventi più desolati, “al termine di una lunga battaglia di sdoganamento, il ‘cattivismo’ si è ormai affermato”). E al tempo stesso l’impegno – conoscitivo e politico insieme – a guardare le cose e il mondo nella loro complessità, a sfuggire le approssimazioni e le semplificazioni (perché perfino l’Italia “è un paese molto più complicato, stratificato, maturo di come spesso è possibile percepirlo attraverso la grande vulgata mediatica che vorrebbe raccontarlo”).

Dietro al suo lavoro letterario, ai suoi interventi pubblici, all’intensa attività compiuta per la rivista Lo Straniero e altrove, c’era un carattere o forse un metodo che lo portava, nella forte convinzione dei propri valori, ad ascoltare e considerare quelli altrui: non per venirci a patti ma per combatterli con più consapevolezza, con più conoscenza – con più serietà, appunto. E con la dolcezza del suo carattere, del suo parlare a bassa voce, con precisione e sicurezza, senza arrendevolezza ma senza arroganza né sicumera. Tutte cose che mancheranno irrimediabilmente, a chi lo conosceva e a chi lo leggeva.

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