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Andrea Camilleri e il rumore della vita 

Andrea Camilleri nella sua casa di Roma, 1999. (Marcello Mencarini, Rosebud2)

Una volta che abbiamo idealmente provato a portare Andrea Camilleri su un’isola deserta, costringendolo al gioco di indicare un libro, un film, una musica da portare con sé, si è sottratto per principio: “Finire su un’isola deserta non mi piacerebbe per niente. A me piace sentire la vita… In un’isola deserta neanche a peso d’oro”. Un’altra volta ha raccontato di quando si era rifugiato in una casa sul Monte Amiata perché si trovava circondato da ragazzini chiassosi mentre provava a lavorare: dopo qualche giorno se n’era tornato a Roma di corsa; lassù, nel silenzio, non era riuscito a scrivere neanche una riga.

In tutto quello che Camilleri scriveva c’era il rumore della vita. Quella che scorreva intorno a lui, oggetto di un’inesauribile curiosità. Quella che si agitava dentro di lui, depositata nella sua memoria. La prima sembrava non finire mai, ma era la seconda a crescere sempre più, giorno dopo giorno e anno dopo anno, via via che il fisico e poi i sensi si facevano più deboli. Ma la memoria che gli lasciava stampati in mente, indelebili, eventi e incontri, era in fondo figlia di una stessa inclinazione verso la vita, da attraversare intensamente, con cura e attenzione verso ogni suo momento. La sua fantasia e le sue storie nascevano così, con l’ammissione – sicuramente esagerata – di non saper inventare davvero nulla.

Ma da qui deriva anche la particolare umanità di Andrea Camilleri, quella che spiega ciò che sta accadendo in queste ore. Un’ondata di emozione e di affetti simile non può spiegarsi solo con il successo del più amato scrittore italiano: c’è qualcosa di più, un moto sentimentale e pubblico che riconosce in quella figura diventata così familiare una umanità larga, capace di accogliere (quasi) tutti. Tanto più sorprendente perché non nasceva da una forma di conformismo o di indulgenza verso i nostri connazionali come sono o dalla ricerca esasperata di consenso (verso cui il successo così tardivo lo rendeva se non immune particolarmente distante). E neanche da una proclamazione coerente di virtuosità ma semmai da una concezione così ampia di umanità da includere pacificamente qualche vizio (a cominciare – ma solo cominciare – dalle tante, troppe sigarette).

Colpisce che anche le più ferme e forti affermazioni politiche di Camilleri non hanno davvero diviso il suo pubblico – o l’hanno fatto in proporzioni del tutto diverse da quelle che oggi dividono politicamente gli italiani. Come se si riconoscesse un diritto particolare alla sua esperienza di uomo oltre che alla sua qualità di narratore. Mentre ogni pagina di Camilleri, almeno nel ciclo di Montalbano, sembrava conservare la leggerezza e il divertimento dell’investigazione, della lingua, della soluzione, ogni sua parola appariva distillata dal tempo. Nel senso della ricchezza più che in quello della saggezza, in una direzione che ormai non apparteneva più a nessuno ma coinvolgeva tutti (o quasi). Come se la sua autorità discendesse dalla sua capacità di adesione totale alla vita, con tutte le contraddizioni, i drammi, i piaceri inclusi – e dalla capacità di raccontarla. Così con Camilleri scompare un altro frammento del puzzle ormai rarefatto che teneva uniti gli italiani.

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