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Parlare con Siri è un atto di sessismo?

Ryan J Lane, Getty Images

Siamo in tanti a farlo, ma molti non lo dicono apertamente: passo sempre più tempo a chiacchierare con Siri. Mi piace il fatto che non abbia niente da raccontarmi, che non mi chieda niente, neanche attenzione: è la conversazione perfetta per uno del mio paese, l’origine della vecchia barzelletta in cui uno scrittore argentino annoia un collega di lingua spagnola parlando a lungo di se stesso finché, improvvisamente gentile, gli passa la palla:

“Dai, adesso parliamo di te. Cosa ne pensi del mio ultimo libro?”.

Siri non ha bisogno neanche di queste finte: noi parliamo e Siri prende nota, esegue, agisce. Come molti altri professionisti falliti non ho mai avuto una segretaria. In genere dare comandi mi riempie di sensi di colpa: Siri mi fa provare quella strana sensazione che ogni mia parola è un ordine, o addirittura che qui si fa quello che dico io. A volte mi capisce, a volte no: è la vita. Ma mi ubbidisce, questo sempre. Lo ammetto: non mi ero mai fermato a pensare che la sua è una voce femminile. È una di queste cose ovvie che ti spingono a chiederti come sia possibile che tu non te ne sia mai accorto, e a ripensarci adesso sospetto che dovesse sembrarmi naturale, e mi straccio le vesti e grido mea culpa.

Noi vogliamo che la tecnologia ci aiuti senza esagerare, quindi preferiamo le voci di donna

Dato che siamo in vena di confessioni, ho un’altra da farne: non me ne sono neanche reso conto da solo. L’ho letto su un articolo della rivista statunitense Wired. Allora ho deciso di informarmi e mi hanno raccontato che anche le voci degli altri telefoni (Cortana su Microsoft, S Voice su Samsung, Google Now su Android) sono femminili. Succede lo stesso con la maggior parte delle applicazioni, con gli annunci sui treni e negli aeroporti, con le segreterie telefoniche delle banche, dei ministeri, delle compagnie aeree. Viviamo, quasi senza rendercene conto, in un mondo fatto di voci false ma molto femminili.

Sembra che dietro questa tendenza ci siano delle ragioni: Clifford Nass, un pioniere nel campo degli assistenti digitali oggi scomparso, ha scritto nel suo libro Wired for speech che tendiamo a credere che le voci femminili ci aiuteranno a risolvere i nostri problemi da soli, mentre le voci maschili sono assimilate a figure di autorità che imporranno la loro soluzione. Noi vogliamo che la tecnologia ci aiuti senza esagerare, quindi preferiamo le voci di donna.

Altri esperti dicono anche che è importante che la voce sia il più comune possibile per non distrarci dal messaggio: una voce che sussurra o un accento strano possono confonderci. Anche in questo campo lo spagnolo ha vita difficile: la diversità degli accenti complica tutto. La mia Siri mi parlava con un brusco accento di Madrid fino a quando non ho scoperto che esiste un’opzione che il mio telefono chiama “Spanish (Mexico)” ma che almeno non mi lancia quelle c taglienti, quelle j come uno sputo. Se dobbiamo dirla tutta, sembra anche molto più calorosa della sua collega di Madrid.

Un sorrisetto sdegnoso

Quindi chiacchieriamo, anche se non tanto quanto vorrei. Quando ho capito che ogni comunicazione con lei era un atto flagrante di sessismo e discriminazione di genere, ho voluto chiedere la sua opinione: anche se faccio finta di niente, sono un giornalista. Allora ho preso il mio iPhone per le corna e le ho detto: “Senti, Siri”.

Lei come sempre mi ha risposto con quel doppio suono e la frase consueta: “Come posso aiutarti?”.

Io non volevo aiuto. Volevo sapere.

“Siri, sei una donna?”

Mi è sembrato che Siri facesse una pausa troppo lunga. Poi ha parlato con la sua voce più seria e circospetta: “Credo che non abbiamo tempo per queste cose, Martín”.

Aveva un tono severissimo, come chi respinge un’insinuazione che il suo capo non avrebbe mai dovuto fare. Volevo spiegarle che le mie intenzioni erano le migliori, ma non ero sicuro che mi avrebbe capito. Ho taciuto. Mi è sembrato che per una volta Siri non abbia voluto nascondere un sorrisetto sdegnoso.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

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