×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La triste fine della parabola di Ignazio Marino

Ignazio Marino a Roma, il 17 settembre 2015. (Gabriel Bouys, Afp)

Finisce nel peggiore dei modi la breve epoca di Ignazio Marino come sindaco di Roma. Finisce perché, a quanto pare, il primo cittadino della capitale si è fatto rimborsare cene “istituzionali” fornendo false informazioni sui suoi commensali. E dire che solo pochi anni fa Marino era una delle speranze del Partito democratico, una di quelle persone capaci di fare da baluardo contro i sentimenti “anticasta” che animano ormai milioni di italiani.

Marino, di professione chirurgo ed entrato in politica solo nel 2006 con l’elezione al senato, trasmetteva un’immagine diversa rispetto ai “politici di professione”, quella di una persona che si è affermata con il lavoro e che aveva poi deciso di servire la causa pubblica. E sapeva dare l’idea – in un Pd spesso incrostato e bloccato dai veti incrociati – di uno che ha il coraggio delle sue opinioni, per esempio sul testamento biologico e sulle unioni civili, che ha sostenuto nonostante sia un cattolico praticante.

La bici e l’auto blu

E infatti lo troviamo sulla grande scena nazionale quando nel 2009, alle primarie per la segreteria del Pd dopo le dimissioni di Walter Veltroni, si candida contro Pierluigi Bersani e Dario Franceschini. Marino si presenta come il candidato che rompe le uova nel paniere, che parla di diritti civili, di ambiente, di laicità, contro l’establishment del Pd spesso troppo cauto. Sostenuto da molti giovani e da figure come Pippo Civati, non va oltre il terzo posto, ma con il 12,5 per cento dei voti ottiene comunque un risultato al di là delle aspettative.

Il sindaco non ha capito quando era arrivato il momento di andarsene

Ma il vero trionfo arriva nel 2013. Prima sbaraglia con il 55 per cento l’establishment del Pd alle primarie per le comunali di Roma, poi batte il sindaco uscente Gianni Alemanno. I romani ripongono in lui la speranza di una svolta vera, della fine di anni di malgoverno che hanno svuotato le casse della città lasciandola con servizi inadeguati. Ma, ed è questo il primo vero dramma di Marino, alla fine forse sarà ricordato solo per aver scelto come mezzo di locomozione istituzionale la bici invece dell’auto blu e per aver pedonalizzato via dei Fori imperiali.

A ben guardare Marino ha cercato di affrontare anche temi più complicati, come il risanamento dell’Ama e dell’Atac, le municipalizzate della nettezza urbana e del trasporto pubblico, gravate dall’eccesso di personale (assunto in parte per puri criteri clientelari) e dai debiti ma incapaci di fornire servizi all’altezza di una grande metropoli europea. Ha riaperto anche la questione degli appalti per la Metro C, cercando di ridurre il danno arrecato al comune dall’esplosione dei costi.

In queste campagne ha dovuto scontrarsi con l’ostilità di gran parte del suo stesso partito, che l’ha sempre vissuto come intruso e che – come sappiamo grazie alle indagini di Mafia capitale – ha avuto alcuni suoi dirigenti locali coinvolti nelle corruttele di Buzzi e Carminati.

Consenso senza sostegno

Ma in fin dei conti l’inchiesta Mafia capitale si è rivelata l’ultimo salvagente per Marino. Già nel 2014 era difficile trovare a Roma qualcuno disposto a difenderlo. Per spiegare le crescenti avversioni, lui ha sempre sostenuto che la sua azione si scontrava con potenti interessi costituiti, e ha detto di essere legittimato non dagli apparati e dai poteri forti, ma dai due terzi degli elettori che avevano scelto lui come sindaco.

Ma è proprio questa la contraddizione più grande di Marino: quella di non aver saputo trasformare quel consenso enorme – l’unica sua vera base di potere – in un sostegno duraturo. Nel giro di pochi mesi è diventato uno dei sindaci più impopolari d’Italia. E la colpa non è degli avversari o di un mondo dell’informazione largamente ostile, ma proprio del modo in cui Marino ha amministrato Roma. Non è mai riuscito a dare ai romani un segno tangibile della rinascita della città e ha continuato a ingrossare le file dei suoi oppositori, dai sindacati a Sinistra ecologia libertà, che ha lasciato la giunta comunale.

Ormai da mesi di Marino circola l’immagine poco lusinghiera di uno “incapace, ma almeno onesto”. Uno che rimaneva aggrappato alla sua carica solo perché le indagini della procura dimostravano la sua onestà e perché il Pd romano e nazionale – che lo detesta cordialmente – non voleva nuove elezioni che potrebbero dare al Movimento 5 stelle il Campidoglio, magari proprio a Giubileo in corso.

Marino ha pensato di poter ignorare la sua crescente solitudine e il fatto di essere ormai commissariato dal Pd. Ma poi sono arrivate le polemiche sul suo viaggio a Filadelfia e lo schiaffo del papa (“Non l’ho invitato io”).

E si è capito che il sindaco non è solo un discutibile amministratore, ma soprattutto una persona a cui mancano alcune delle più elementari doti politiche, non ultima quella di capire quando è ora di andarsene. Gli scontrini dei ristoranti hanno fatto il resto: hanno tolto a Marino l’ultimissima difesa rimasta, quella di non appartenere alla “casta”.

pubblicità