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Abolire le frontiere raddoppierebbe il reddito mondiale

Jagjit Singh, indiano di 38 anni, lavora nell’azienda Cila a Novellara (Reggio Emilia) dove si produce il formaggio Parmigiano. (Giulio Piscitelli, Contrasto)

Un aumento del prodotto interno lordo mondiale tra il 50 e il 150 per cento: sarebbe di questa portata l’effetto dell’abolizione delle barriere alla mobilità dei lavoratori. L’intervallo della stima è ampio, ma la direzione è chiara: la cancellazione delle frontiere avrebbe un impatto largamente positivo sulle prospettive di generazione della ricchezza a livello globale.

È quanto sostengono numerosi economisti tra cui Michael Clemens, che da anni studia l’impatto delle barriere all’immigrazione presso il Center for global development di Washington. Secondo Clemens si tratta di guadagni “nell’ordine di decine di migliaia di miliardi di dollari”.

Il meccanismo alla base di questi risultati è semplice. Infatti, nonostante la grande apertura al commercio internazionale registrata al livello globale negli ultimi decenni, esistono ancora numerose differenze nella produttività del lavoro, ossia “quanto” lavoro serve per produrre beni e servizi, tra diversi paesi.

Queste differenze sono legate a disparità nella qualità delle infrastrutture, delle istituzioni, delle tecnologie e dell’istruzione della forza lavoro, e si riflettono direttamente sulle buste paga dei lavoratori. È per questo che, come notato dall’Economist, all’inizio degli anni 2000 un lavoratore in Messico guadagnava in media il 40 per cento in meno di un lavoratore con simili livelli di istruzione, nato anche lui in Messico ma emigrato negli Stati Uniti.

Secondo John Kennan, dell’Università del Wisconsin-Madison, l’apertura delle barriere al movimento dei lavoratori genererebbe un aumento medio dei salari dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo di circa diecimila euro l’anno, o il 100 per cento dei livelli registrati oggi. Chiudere anche solo di un quarto l’attuale divario di produttività esistente tra paesi ricchi e poveri porterebbe a un guadagno totale di circa 21mila miliardi di dollari, o il 30 per cento del pil mondiale.

Se si raggiungesse una mobilità totale del ‘fattore lavoro’, l’aumento dell’ouput globale arriverebbe al 122 per cento

Ma alcuni studi, come quello degli economisti Paul Klein e Gustavo Ventura, si spingono oltre, stimando che, se si raggiungesse una mobilità totale del “fattore lavoro”, l’aumento dell’ouput globale arriverebbe al 122 per cento. Senza contare che l’abolizione delle frontiere avrebbe anche effetti secondari, come l’accumulo di capitale da parte dei lavoratori immigrati, poi trasferibile nei paesi d’origine, e l’aumento delle rimesse che, giunte a 400 miliardi di dollari nel 2012, arrivano a contare per il 20 per cento del prodotto interno lordo in paesi come la Liberia o il Nepal e rappresentano il principale strumento di sviluppo dei paesi economicamente più svantaggiati.

Rispetto a questi effetti, l’abolizione delle barriere al commercio, come quelle discusse in questi mesi con gli accordi di liberalizzazione degli scambi Ttip e Tpp impallidiscono, essendo i loro effetti stimati tra l’1 e il 2 per cento del prodotto interno lordo globale. Perché allora non c’è traccia di posizioni favorevoli all’apertura delle frontiere nel dibattito politico contemporaneo?

Una delle principali preoccupazioni è che migrazioni su larga scala possano avere effetti molto negativi sui lavoratori locali. In realtà, le evidenze scientifiche a favore di questa posizione sono tutt’altro che robuste.

Secondo la maggior parte degli studi, un aumento del 10 per cento del numero di lavoratori immigrati può avere un effetto sul salario dei lavoratori locali compreso tra il -2 per cento e il +2 per cento, secondo il tipo di immigrazione e la struttura produttiva del paese di arrivo.

Senza contare che è la storia stessa a rendere dubbia l’idea del crowding out: l’aumento repentino dell’occupazione femminile negli ultimi quarant’anni non ha avuto significativi effetti negativi sull’occupazione maschile in nessun paese industrializzato, mentre l’ondata migratoria di più di 30 milioni di lavoratori entrati negli Stati Uniti tra il 1960 e il 2011, che ha raddoppiato la quota di lavoratori immigrati, ha portato a un effetto sul salario dei lavoratori americani compreso in una forbice tra il -3 per cento e il +1 per cento. Numeri marginali rispetto all’impatto positivo che l’abolizione delle frontiere avrebbe sul reddito dei lavoratori al livello globale.

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