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Inviati spaziali

1. Thievery Corporation, Letter to the editor (feat. Raquel Jones)
Ah, mettere in musica tutte le lettere al direttore più furenti! Citizen journalism in dub con il basso che porta a spasso una vocalist giamaicana in pieno controllo della propria scontentezza. È uno dei pezzi forti di un album che suona benissimo: The temple of I&I. I musicisti di Washington si sono autoinviati a Kingston, e da qui spaziano nell’universo parallelo dell’entroterra reggae, probabilmente con l’obiettivo di scartavetrare – tra una degustazione di rum & ganja e l’altra – il loro sound patinato da palestra fighetta.

2. Utveggi, Mizu
Come suonerebbero i Beach Boys se la spiaggia fosse a rischio tsunami? Forse con un canto così. Al sapore di zuppa d’alghe, come il brodo in cui fermenta l’alternative rock siculo-giapponese di questa band mutante, con puntate tra generi e idee come il “divertissepunk”, astruserie di area Area, intrecci vocali belli, un po’ di metallo katana, sottolineature da universitari su tascabili di Soriano o Pessoa. Una cultura dell’eclettico celebrata nel nuovo album, Altri mondi, forse un po’ dispersivo ma sempre attento a tenere la rotta tra ricerca e ascoltabilità.

3. Richard Barbieri, New found land
Poi ci sono i veterani dell’esplorazione, quelli che hanno vagato abbastanza a lungo da aver trovato e arredato il loro esopianeta a due passi dal centro del sistema solare. Uno così è l’ex tastierista dei Japan, numi della più eterea new wave, e poi dei neopink-floydiani Porcupine Tree, che si addentra in uno spazio siderale molto simile a quello interiore, come enunciato dal titolo del nuovo lavoro, Planets + Persona. New age cosmico-elettronica mai banale, intessuta di riferimenti mai troppo espliciti a cinema, jazz, etnie lontane, linguaggi alieni.

Questa rubrica è stata pubblicata il 10 marzo 2017 a pagina 86 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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