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Il nuovo film degli Avengers è il nostro perfetto autoritratto

Questa volta Tony Stark l’ha fatta grossa. L’idea di partenza sembrava anche buona: costruire un sistema informatizzato, Ultron, per proteggere la Terra dalle consuete minacce che popolano l’universo Marvel – razze extraterrestri, divinità impazzite, divoratori di mondi. E poi è successa la catastrofe: il sistema ha cominciato a evolvere, è diventato autocosciente e adesso non vuole più obbedire al suo creatore. E dire che bastava aver visto Terminator o Matrix per farsi venire il sospetto che progettare un’intelligenza artificiale capace d’imparare a ritmo esponenziale non fosse proprio l’idea del secolo.

Avengers: age of Ultron.

“La tecnologia è sfuggita al nostro controllo” era la tesi esposta dal futurologo americano Alvin Toffler nel suo bestseller del 1970, Future shock (adattato in un documentario con Orson Welles). Toffler sosteneva che nel mondo capitalista, così come in quello socialista, fosse ormai impossibile padroneggiare gli effetti perversi del progresso: crisi, inquinamento, criminalità, guerre, povertà, malessere eccetera.

Contrariamente a ciò che negli anni quaranta-cinquanta sostenevano i teorici della cibernetica sociale e della rivoluzione manageriale, il sistema economico mondiale era diventato un organismo autonomo, imprevedibile e apertamente ostile nei confronti dell’umanità. Incarnazione per eccellenza di questa “rivolta cibernetica”, il personaggio di Ultron era stato creato due anni prima da Stan Lee, Roy Thomas e John Buscema sulle pagine della serie a fumetti Avengers. In quello stesso 1968, Stanley Kubrick aveva portato al cinema la follia del computer HAL 9000 nel film 2001: odissea nello spazio, dopo aver descritto una simile follia all’opera nei sistemi tecnocratici con Orizzonti di gloria (1957) e Il dottor Stranamore (1964).

HAL 9000, Ultron e Future shock sono tutte tracce di un’inquietudine che emerge negli anni del miracolo economico

HAL 9000, Ultron e Future shock sono tutte tracce di un’inquietudine che emerge negli anni del miracolo economico, innervando la cultura popolare e la riflessione di pensatori come il francese Jacques Ellul. È un sessantotto pessimista, apocalittico, del quale abbiamo cancellato la memoria; un sessantotto libertario e contemporaneamente reazionario, il sessantotto di Guy Debord e di Ivan Illich, di Philip K. Dick e della musica folk. È proprio allora che qualcuno comincia a parlare di neoluddismo, dal nome di Ned Ludd, leggendario distruttore di macchine e simbolo della rivolta contro la civiltà industriale.

Lo spirito dell’epoca si è in qualche modo depositato nelle pagine di Avengers ed è stato rianimato dal film di Joss Whedon. Le immagini di Thor che prende a martellate una macchina superevoluta sembrano evocare altre immagini, quelle appunto di Ned Ludd che distrugge l’antenato di Ultron: il telaio meccanico.

Ned Ludd e Thor: iconografie a confronto.

Avengers, film luddista? Non esageriamo. Con difficoltà, i Vendicatori riescono comunque a salvare il mondo dalla tecnologia impazzita, avallando la possibilità di una convivenza proficua tra esseri umani e macchine. La soluzione è alzare la posta in gioco, prendere un rischio ancora più grande e accelerare per superare in corsa, progredendo ulteriormente, gli effetti perversi del progresso. La società tecnologica ha un inconscio tecnofobo, ma spesso è proprio la tecnofobia ad alimentare la tecnofilia. E così, malgrado il lieto fine assicurato, Whedon è riuscito a mettere in luce il paradosso centrale del sistema tecnologico come lo aveva descritto Jacques Ellul: la tendenza a creare sempre nuovi effetti collaterali nel tentativo di emendare quelli creati dalla risoluzione di un problema precedente. Una sorta di loop, come fa notare Bruce Banner a un certo punto del film.

Nel primo Iron Man cinematografico, per esempio, Tony Stark combatteva contro dei terroristi armati dalle sue stesse aziende. Frequente nell’universo dei supereroi, questo paradosso determina un rapporto di dipendenza e quindi di asservimento, poiché il ricorso al rimedio — e questo lo notava Ivan Illich — partecipa alla costruzione di una realtà sociale nella quale il rimedio diventa necessario.

I Vendicatori riescono comunque a salvare il mondo dalla tecnologia impazzita, avallando la possibilità di una convivenza proficua tra esseri umani e macchine

Togliete i Vendicatori dall’universo Marvel e state sicuri che tutto sarà distrutto in quindici minuti da qualche minaccia causata in precedenza dagli stessi Vendicatori. Togliete il petrolio alla società industriale e vi ritrovate nel mondo di Mad Max. Altro che “decrescita serena”: lo sviluppo capitalistico ha distrutto financo la possibilità di un altro ordine economico. La sola possibilità sembra essere quella di accelerare.

Nei fumetti come nel film, lo sfortunato inventore di Ultron – nell’originale si trattava di Hank Pym ovvero Ant-Man – era animato dalle migliori intenzioni; ma non aveva fatto i conti con la tendenza della tecnologia a produrre effetti imprevedibili. In un recente ciclo di storie scritto da Brian Michael Bendis, per impedire a Ultron di distruggere l’umanità intera, Wolverine torna indietro nel tempo e uccide il suo inventore (ancora una reminiscenza di Terminator, oltre che degli X-Men di Chris Claremont). Ma il risultato dell’azione di Wolverine è un nuovo continuum spaziotemporale nel quale la tecnologia è stata sconfitta dalla magia. La morale esposta è chiara: per quanti rischi comporti il progresso, l’alternativa potrebbe essere peggiore, ovvero un mondo governato dalla superstizione.

Wolverine torna nel passato per impedire la creazione di Ultron.

La parabola di Wolverine ricapitola quella di Theodore Kaczynski, detto Unabomber, che ispirandosi proprio alle teorie di Ellul terrorizzò gli Stati Uniti tra il 1978 e il 1995. Ferendo e uccidendo diversi scienziati, Kaczynski intendeva impedirgli di fare scoperte potenzialmente distruttive. Ma nella “società del rischio”, per citare Ulrich Beck, ogni tentativo di neutralizzare o controllare la tecnologia — spesso ricorrendo a ulteriore tecnologia — contribuisce ad aumentare il grado di disordine nel sistema. E infatti i potenti Vendicatori non possono fare altro che tentare di amministrare alla bell’e meglio il mondo che invece dovrebbero proteggere.

Che cos’è andato storto? È una domanda che gli americani si pongono almeno dal 1961, quando il presidente Dwight Eisenhower denunciò la dipendenza degli Stati Uniti da una “enorme macchina industriale e militare”, necessaria per soddisfare i bisogni imperativi dello sviluppo. Molto meglio dei concorrenti della venerabile DC comics, arroccati in una dimensione epica tipica dell’età dell’oro dei comics, gli autori Marvel hanno saputo tradurre nei loro fumetti queste nuove preoccupazioni.

Stan Lee volle incarnare nel personaggio di Tony Stark il “complesso militare-industriale” di Eisenhower e le sue “gravi implicazioni”, che non solo sfuggono al controllo dei processi democratici, ma inoltre sembrano mancare di una vera e propria razionalità. Come Joss Whedon mostra bene, Ultron non è solo un’intelligenza artificiale altamente evoluta: è anche completamente pazzo, instabile, perché processa input contraddittori.

Cosa sono il bene e il male in un universo in cui ogni atto può produrre il suo contrario?

La convinzione che Ultron sia un “incidente di percorso” sulla strada del progresso non attenua il senso di colpa che perseguita Pym (nei fumetti) e Stark (nei film). Ancora una volta, è innanzitutto Thor, il dio nordico, che incarna la critica della ragione tecnologica, mettendo Stark sotto accusa in una delle scene iniziali del film. È questa responsabilità terribile nei confronti degli effetti collaterali delle azioni che emerge dell’adattamento di Whedon.

Cosa sono il bene e il male in un universo in cui ogni atto può produrre il suo contrario? Che senso ha fare il supereroe quando viene a mancare la certezza di una proporzionalità tra causa e conseguenza? È un tema che il fumetto popolare americano ha percorso in lungo e in largo, riflettendo le preoccupazioni di una superpotenza che si considera chiamata a governare il mondo.

Eppure dovevate vederlo all’inizio, Ultron. Una creaturina inoffensiva, un amore di robottino. Ma il robottino ha costruito un altro robottino, che ha costruito un altro robottino, che si è messo a parlare come un burattino — “Ora sono libero, non ho fili che mi legano” — citando testualmente il Pinocchio della Disney. Ultron evolve a vista d’occhio, da rottame scalcinato a colosso “pompato” in scorza di vibranio. Nei fumetti da cui è tratto il personaggio, Ultron cambia nome e design a ogni episodio: appare per la prima volta con il nome Ultron-5, e poi come Ultron-6, Ultron-7, Ultron-8, eccetera, fino all’Ultron-18 degli anni 2000.

L’evoluzione di Ultron nei fumetti degli anni sessanta e settanta.

L’evoluzione di Ultron avviene in parallelo a un’altra evoluzione: quella degli stessi Vendicatori. Mentre il robottino si riconfigura obbedendo ai feedback che riceve dall’interno dell’universo Marvel, nella serie a fumetti i personaggi di Stan Lee si trasformano grazie al feedback dei lettori sul lavoro di autori spesso geniali (condizione necessaria ma non sufficiente per riuscire a catturare lo spirito di un’epoca). Comperando o non comperando un certo albo, determinando il successo o il fallimento di ogni innovazione, sono proprio i lettori che orientano un processo di “selezione naturale” delle forme che dura da mezzo secolo. Ogni buona idea è sopravvissuta, ogni cattiva idea è stata abbandonata.

Prendete Iron Man per esempio: nella sua prima apparizione sembrava un bollitore per l’acqua, mentre oggi indossa l’armatura più swag che si possa immaginare. È l’intelligenza collettiva del mercato – applicata al sistema produttivo fortemente disciplinato degli studios fumettistici – che ha plasmato i Vendicatori influenzando il loro abbigliamento, ispirando le loro storie e popolando il loro mondo.

Il sistema tecnologico ha pilotato la trasformazione di un innocuo fumetto in una potente metafora politica

Chi sostiene che Avengers: age of Ultron sarebbe un film “superficiale” sottovaluta l’abbondanza d’idee e d’iconografie che si sono stratificate per dare vita a questa grande baracconata. E chi rimpiange l’assenza di “personaggi complessi” in un film di supereroi, oltre forse ad avere qualche problema con la coerenza delle proprie aspettative, dimentica che al cuore dell’artificio drammatico sta il dramma, ovvero l’azione.

Dall’apparente ingenuità delle prime storie degli anni sessanta fino alla complessità di questo adattamento cinematografico, la mutazione è impressionante. Nessuno poteva pianificarla: è accaduta. Il sistema tecnologico ha pilotato la trasformazione di un innocuo fumetto in una potente metafora politica. L’iniezione crescente di capitali (duecentocinquanta milioni di dollari per questo film) ha fornito i mezzi per migliorare la qualità tecnica della realizzazione. Il risultato è esteticamente impressionante. La creatività di migliaia di uomini, su cinque decenni, ha fornito le singole mutazioni genetiche casuali necessarie alla generazione spontanea di un discorso senza autore. Da questo punto di vista, Joss Whedon è il curatore di una grande opera collettiva e Avengers: age of Ultron è un autoritratto della civiltà industriale. Scritto, prodotto e diretto da Ultron.

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