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In Medio Oriente il problema non è l’islam ma il fallimento della politica

Il Cairo, Egitto, dicembre 2016. (Nariman El-Mofty, Ap/Ansa)

Periodicamente, nel corso degli anni, sembra che le analisi sul Medio Oriente e la politica globale attraversino una fase in cui una domanda cruciale cattura l’attenzione dei mezzi d’informazione e delle riflessioni in tutto il mondo: l’islamismo è una tendenza pericolosa che caratterizzerà le future società a maggioranza musulmana o è solo una fase passeggera?

Sono sorpreso da quanto spesso l’argomento ricorra nelle chiacchiere con gli amici e tra i colleghi di tutto il mondo, mentre nelle mie conversazioni quotidiane con gli arabi e i musulmani di tutto il Medio Oriente è molto meno frequente.

Ci sono varie spiegazioni possibili per questa differenza: a) l’occidente è giustamente ossessionato dalla minaccia concreta di una militanza islamista prolungata, b) l’occidente ha sposato le tesi degli autocrati arabi, direttamente minacciati dalle rivolte o dalle forze di opposizione islamiste, c) gli arabi e i musulmani del Medio Oriente che vivono queste problematiche ogni giorno sanno che l’islamismo e le sue manifestazioni come i Fratelli musulmani o il gruppo Stato islamico (Is) sono soltanto sintomi superficiali di questioni più profonde che non riguardano la religione, ma la politica, la natura umana e l’abuso di potere che colpiscono centinaia di milioni di persone a cui non rimane che affidarsi alla religione.

Pongo questa domanda perché è importante che davanti al ritorno di questo dibattito ci concentriamo sulle questioni reali invece di farci distrarre dalla cortina fumogena e dalla propaganda disseminata nelle campagne di pubbliche relazioni a livello globale alimentate dai paesi arabi più ricchi, preoccupati dal persistere di movimenti islamisti in tutta la regione.

La politica islamista è un sintomo di un malessere diffuso tra cittadini politicamente emarginati

Davvero i paesi come l’Egitto e alcuni grandi produttori di petrolio hanno motivo di temere la sopravvivenza nel tempo e addirittura l’espansione di alcuni gruppi islamisti a livello regionale se non globale? Credo che la risposta sia “sì e no”. Sì perché fanno bene a preoccuparsi per i segnali dell’insoddisfazione di massa da parte di cittadini islamisti e laici, dato che una cittadinanza arrabbiata che trasforma il malcontento in azione politica può generare un picco di populismo capace di rovesciare un governo (Tunisia, Egitto) o trascinare i paesi i cui governi si oppongono a quest’ondata in infinite guerre civili (Libia, Siria, Yemen). Ma la risposta è anche “no”, perché non dovrebbero aver paura della persistenza della politica di matrice islamica se capissero che si tratta di un sintomo di un malessere diffuso tra cittadini politicamente emarginati che vengono bersagliati dalle loro società. Ma dovrebbero essere disposti a risolvere pacificamente i problemi alla radice.

Spesso la gente parla di “islam politico” quando si trova a discutere dei movimenti politico-social-militanti che si avvolgono nella bandiera dell’islam e si rivolgono a musulmani in diversi modi. Questo termine molto generico può riferirsi a migliaia di movimenti diversi in cento paesi diversi, dai fornai locali che regalano cibo ai più bisognosi ai movimenti di mobilitazione globali che cercano di unire tutti i componenti della comunità musulmana (umma) in una singola nazione islamica, idealmente sotto un nuovo califfato. Penso sia più utile parlare di movimenti “islamisti” e aggiungere un aggettivo adeguato per identificarli: pacifisti, attivisti nonviolenti, orientati verso l’azione politica, orientati verso i servizi sociali, militanti, terroristi o qualsiasi altra definizione che differenzi i movimenti di cui stiamo parlando.

La verità è che sappiamo tutti di cosa stiamo parlando. La maggioranza di questi movimenti che spaventano così tanta gente rientra in questo elenco: a) i Fratelli musulmani, che esistono da prima che molti paesi arabi diventassero stati sovrani, e le più recenti manifestazioni nazionali, b) i gruppi terroristi come Al Qaeda e l’Is che attaccano su scala globale, c) i movimenti di resistenza armata con raggio d’azione nazionale che combattono per liberare le loro terre dall’occupazione israeliana (come Hamas ed Hezbollah), d) centinaia di piccoli movimenti armati jihadisti, locali o nazionali, che si sono radicati in territori senza legge come Siria, Libia, Iraq, Yemen, Somalia e Mali.

La critica principale che rivolgo a questo dibattito è che la natura islamista dei gruppi politici spaventa la gente tanto in fretta da escludere un’analisi più accurata del motivo per cui questi movimenti si sono ampliati così rapidamente nella nostra regione e nei paesi stranieri. L’enfasi esagerata che viene posta sulla religione e l’islam impedisce una discussione sulle cause del malcontento e del peggioramento del tenore di vita, fattori che spingono le persone verso la religione come strumento per fare ciò che gli è negato nelle altre dimensioni della loro vita (politica, sociale, civica), ovvero esprimere la propria insoddisfazione, partecipare al processo decisionale come ogni cittadino dovrebbe fare, responsabilizzare i potenti e cercare di far approvare politiche nazionali che garantiscano (anziché limitare) i diritti sociali, politici ed economici di tutta la popolazione.

Se i governi e le loro élite al potere non permetteranno ai cittadini di esprimere la loro insoddisfazione o rimediare alle condizioni che emarginano milioni di persone, non dovranno stupirsi se uomini e donne esasperati e disperati si rivolgeranno alle divinità in cerca di salvezza.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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