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La fotografa che racconta la violenza dell’aborto clandestino

L’allestimento della mostra di Laia Abril al festival di fotografia di Arles, luglio 2016. (Julio Perestrelo)

“In maniera naturale ogni donna, nel corso della sua vita, potrebbe rimanere incinta quindici volte e arrivare a partorire dieci, ma solo sette dei neonati riuscirebbero a sopravvivere. Ogni anno 47mila donne nel mondo muoiono per pratiche di aborto non adeguate”.

Questi dati sono stati raccolti dalla fotografa spagnola Laia Abril per realizzare il suo lavoro intitolato On abortion, che è esposto al festival di fotografia di Arles fino al 25 settembre. Abril ha 30 anni, ha studiato in Italia e ha già fatto vari lavori sulle donne. Quest’ultimo fa parte del progetto History of misogyny.

On abortion è uno studio sulle migliaia di donne che ancora oggi nel mondo non possono interrompere una gravidanza in maniera legale e su come molte siano costrette a ricorrere a metodi non solo clandestini ma spesso così pericolosi da mettere in pericolo la loro vita.

Abril ha affermato che il suo lavoro “comincia nel diciannovesimo secolo” perché le donne hanno sempre trovato il modo per non tenere dei bambini. Cita per esempio la ruota dei trovatelli, chiamata anche ruota degli esposti, una sorta di piccola porta girevole presente nelle pareti esterne di alcune chiese e ospedali, dove le donne lasciavano i neonati che erano costrette ad abbandonare.

In Italia la ruota fu ufficialmente abolita nel 1923 dal governo di Benito Mussolini. Fino a quegli anni, nel nostro paese e in Francia, ogni anno venivano abbandonati fra i trenta e i quarantamila neonati. Ma in alcuni paesi è diffusa ancora oggi: dal 2000 in Europa sono stati abbandonati con metodi simili più di 400 bambini. In Germania ci sono almeno cento sportelli attivi, e in Pakistan ce ne sono più di trecento.

Ma se in passato gli ostacoli per interrompere una gravidanza in maniera legale e sicura erano legati a carenze mediche e tecnologiche, “oggi sono per lo più legati a questioni politiche e religiose”, afferma Abril. A dicembre del 2015 il papa Jorge Mario Bergoglio ha istituito in Italia il giubileo della misericordia, per cui alle donne che hanno abortito può essere concesso il perdono. Ma quella italiana resta una situazione molto critica soprattutto a causa delle elevatissime percentuali di obiezione di coscienza.

Il lavoro di Abril è cominciato ad agosto del 2015. Le immagini non sono l’unico linguaggio che ha usato: ci sono testi e registrazioni audio, che svelano tabù, paure e minacce diffuse in tutto il mondo.

La prima parte del lavoro è composta da still life di oggetti conservati nel museo della contraccezione e dell’aborto di Vienna, come il preservativo fatto con una rete da pesca, gli strumenti chirurgici usati per abortire o le illustrazioni mediche. Sono scatti in cui un solo oggetto, o un gruppo di oggetti, è posizionato in maniera molto ordinata. Nonostante lo sfondo rosa pastello e la luce leggera che li illumina, sembrano piccoli strumenti di tortura.

A sinistra Marta Syrwid, 29 anni. A destra strumenti conservati al museo della contraccezione e dell’aborto di Vienna.

Un’altra parte è dedicata alle illegal stories, le storie di alcune donne che hanno abortito clandestinamente. Sono ritratti in bianco e nero di persone e dei luoghi che hanno segnato le loro vite. Illustrano le conseguenze fisiche e psicologiche dell’aborto praticato illegalmente, quindi non sicuro. C’è la storia di Marta Syrwid (nella foto) che racconta del suo viaggio in auto dalla Polonia, dove l’aborto è consentito solo in caso di stupro, verso la clinica per abortire in Slovacchia. La paura, il silenzio delle due persone che la accompagnano, la solitudine quando il fidanzato al telefono le dice che merita di essere trattata come spazzatura perché è così che vanno trattati gli assassini.

La perdita della verginità, all’inizio degli anni duemila, ha avuto per me una sola conseguenza: la paura di rimanere incinta”. (Marta Syrwid su Internazionale)

C’è la storia di Michelle, una donna irlandese a cui è stato indicato dal suo oncologo di interrompere la gravidanza perché il feto aveva subìto danni a causa della chemioterapia e a cui dalla sua clinica di Cork le è stato negato l’intervento.

L’allestimento delle “illegal stories” al festival di fotografia di Arles, luglio 2016.

In Europa l’aborto è legale tranne che in Irlanda, in Polonia e a Malta. In America Latina è illegale quasi in tutti i paesi. In El Salvador le donne che hanno aborti spontanei o complicazioni per cui perdono il bambino dopo i primi tre mesi di gravidanza possono essere accusate di omicidio e condannate a scontare pene fino a 40 anni. Spesso sono i medici che, violando il segreto professionale, denunciano le donne che interrompono la gravidanza, anche quando l’aborto serve a salvargli la vita. Solo a Cuba e in Uruguay l’interruzione di gravidanza è legale. Mentre negli Stati Uniti le norme che lo regolano cambiano da stato a stato.

All’inizio del 2016, il governo brasiliano ha registrato 3.893 casi di anomalie fetali dovute al contagio del virus zika, che si trasmette dalla madre al feto attraverso la puntura della zanzara Aedes aegypti. I bambini che nascono da queste gravidanze rischiano malformazioni cerebrali. L’Organizzazione mondiale della sanità ha chiesto ai governi latinoamericani di semplificare il ricorso all’aborto per le donne che hanno contratto il virus, ma questa possibilità resta molto limitata.

Parte dell’installazione della mostra di Laia Abril al festival di fotografia di Arles, luglio 2016.

Un’altra parte del lavoro di Abril è costituito da documenti audio. In uno di questi una voce minaccia qualcuno che lavora in una clinica di Orlando, in Florida: “Ti piace uccidere i bambini, vero?”.

In una puntata della serie statunitense Orange is the new black, una delle detenute protagoniste si trova in prigione per aver ucciso un’infermiera che l’ha criticata nella clinica in cui ha appena abortito, per la quinta volta. Tiffany va in macchina, prende un fucile, entra nella clinica e spara a freddo sulla donna. Fuori della clinica ci sono manifestanti che protestano con cartelli contro l’aborto. Sono loro a pagare a Tiffany un avvocato per farla uscire di prigione il prima possibile.

Materiali di questo tipo, usati per fare propaganda contro l’aborto sono stati raccolti nel lavoro di Abril. Poster, volantini, in cui si combatte una guerra per immagini, santini e slogan. Sono illustrazioni che si rifanno all’immaginario dell’inferno dantesco o che mostrano foto cruente di feti e bambini morti, spesso alterate digitalmente. Dopo il 1981, gruppi estremisti come l’Esercito di Dio hanno cominciato ad attaccare le cliniche e i medici che praticavano l’aborto. Secondo i dati raccolti da Abril, negli Stati Uniti ci sono stati almeno 11 omicidi e 26 tentati omicidi a opera di antiabortisti.

In altri paesi, per evitare condanne o conseguenze ancora peggiori per i medici e per le pazienti, si usano manifesti e slogan che mascherano le procedure clandestine e illegali con allusioni indirette. In Perù, per esempio, si fa riferimento all’aborto con espressioni come “regolare o sistemare il ritardo delle mestruazioni”. Dal 2014, 277 donne peruviane sono morte perché non hanno potuto abortire. Chi prova ad abortire rischia due anni di carcere, e i medici che praticano un aborto ne rischiano fino a sei.

Manifesti pubblicitari usati in Perù per mascherare le procedure di aborto illegali.

Infine, alcune immagini, ancora in bianco e nero, suggeriscono metodi artigianali e consuetudini, tra cui alcune abbandonate e altre ancora diffuse. Come l’immagine di una vasca da bagno con del vapore, perché un metodo molto diffuso consisteva nell’immergersi in acqua bollente. Nella didascalia, Abril aggiunge che in un testo in sanscrito, risalente all’ottavo secolo, si raccomandava di accovacciarsi su un contenitore pieno di acqua bollente e cipolle.

In un’altra immagine compare una stampella, diventata poi il simbolo degli attivisti per l’aborto perché molte donne, per indurre un’interruzione di gravidanza, ricorrevano a strumentazioni artigianali come ferri da maglia, stecche di ombrelli o stampelle. Tutto questo causava infezioni, emorragie, sterilità e morte.
E poi gli intrugli di erbe. Nel Salvador il chipilín è usato dalle donne nel primo trimestre di gravidanza per provocare un aborto. Altri sistemi prevedono l’uso di quadrifoglio mischiato al vino bianco, melone, papaya e peli di cammello. Fino ad arrivare all’inedia.

On abortion è un’inchiesta trasversale e approfondita, giornalistica e fotografica. Abril ha sfruttato la fotografia per forzare lo spettatore a conoscere la guerra quotidiana di migliaia di donne nel mondo. E lo ha fatto senza drammatizzazione o voyeurismo. Non ci sono violenza, sangue, disperazione, proteste. Tanto che a un primo sguardo, le immagini potrebbero sembrare tutt’altro. Ed è per questo che siamo costretti ad avvicinarci e a leggere le didascalie delle singole foto per capire davvero di cosa si tratta.

Le storie dietro a quelle immagini sono affidate agli oggetti, ai volti ritratti come in un identikit. Ma sono immagini che pesano come prove inconfutabili: volti e parole di chi ha vissuto quelle esperienze, oggetti diventati opere da museo, parole di rabbia e odio realmente pronunciate. Abril ha composto un racconto storico, umano e scientifico sull’aborto, e all’inizio del 2017 ne farà un libro, pubblicato da Dewi Lewis.

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