10 marzo 2016 18:17

Nel 1970, Norma McCorvey, di 22 anni, usando lo pseudonimo di Jane Roe, fece ricorso contro una legge del Texas che secondo lei violava il suo diritto costituzionale a interrompere la gravidanza. La donna (che in seguito ha cambiato idea ed è diventata un’attivista del movimento antiabortista) vinse la causa, Roe contro Wade, grazie a una delle sentenze della corte suprema più controverse del ventesimo secolo. Nel 1973, con sette voti favorevoli e due contrari, la corte suprema ha infatti riconosciuto che “il diritto alla privacy (…) basato sulle nozioni di libertà individuale e limitazioni all’ingerenza statale sancite dal quattordicesimo emendamento” comprende anche “la libertà della donna di interrompere la gravidanza”.

In queste settimane, a più di quarant’anni di distanza dalla sentenza sul caso Roe, la corte suprema sta dibattendo su un’altra legge texana sull’aborto. Non si tratta più di domandarsi se il diritto all’aborto sia garantito dalla costituzione, ma di stabilire fino a che punto gli stati possano rendere complicata la sua applicazione.

Durante le ultime tredici settimane di gestazione gli stati nutrono nei confronti del nascituro un interesse ‘stringente e possono perciò vietare del tutto l’aborto

La sentenza sul caso Roe cercava di trovare un equilibrio tra i diritti delle donne e l’interesse dello stato a proteggere la vita potenziale del concepito. Il giudice Harry Blackmun aveva stabilito che, per quanto riguarda le prime tredici settimane circa di gravidanza, gli stati devono rispettare in toto il diritto di una donna ad abortire.

A partire dal secondo trimestre, e fino alla ventisettesima settimana circa, gli stati possono intervenire nella regolamentazione della procedura, ma solo in caso di “ragionevole pericolo per la salute della donna”. Infine, durante le ultime tredici settimane di gestazione, quando la maggior parte dei feti è “vitale” (vale a dire, in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno), gli stati nutrono nei confronti del nascituro un interesse “stringente” e possono perciò vietare del tutto l’aborto (salvo nei casi in cui la gravidanza minacci la vita o la salute della donna, nel qual caso deve essere sempre consentito).

Diciannove anni più tardi, nel 1992, la sentenza del caso Planned parenthood contro Casey ha abbandonato la “teoria dei trimestri” a favore della cosiddetta soglia di vitalità del feto. Secondo la maggioranza dei giudici, infatti, il progresso tecnologico in campo medico aveva reso obsoleta la scansione temporale alla base della sentenza sul caso Roe: un feto era ormai “vitale” molto prima, forse addirittura intorno alla ventiduesima o ventitreesima settimana di gestazione, dunque gli stati non erano costretti ad attendere il terzo trimestre per vietare l’aborto.

La sentenza del 1992 sul caso Casey ha spinto molti stati ad approvare leggi più restrittive sull’aborto

Oltre ad aver rivisto la delicata questione della scansione temporale, il tribunale che ha emesso la sentenza sul caso Casey ha riconosciuto la costituzionalità di alcune norme volte a impedire o a scoraggiare l’aborto. Se infatti da una parte i giudici avevano ritenuto che costringere le donne a informare il coniuge prima di interrompere la gravidanza costituisse un “onere eccessivo” sul loro diritto costituzionale ad abortire, dall’altra non considerarono “ostacoli” altrettanto “sostanziali” all’esercizio della propria volontà altre disposizioni previste da una legge del 1982, il Pennsylvania abortion control act. Fu confermato, per esempio, l’obbligo per la minorenne che intendesse abortire di ottenere il permesso dei genitori, così come il “consenso informato”, vale a dire l’obbligo per la gestante di ricevere dettagliate informazioni sulla procedura, unitamente all’imposizione di un periodo di riflessione di almeno 24 ore prima di procedere all’operazione.

La sentenza sul caso Casey ha spinto molti stati ad approvare leggi più restrittive sull’aborto. Unitamente alla più facile reperibilità dei contraccettivi, quest’ondata di nuove limitazioni ha contribuito al costante calo del numero degli aborti, che sono passati dai circa 1,6 milioni del 1990 ai 983mila del 2013.

Un quadro giuridico ostile alla libera scelta della donna

Oggi, praticare l’aborto nelle fasi finali della gravidanza è vietato in 43 stati degli Stati Uniti, a meno che non sia necessario per proteggere la vita o la salute della donna. In 38 stati esiste l’obbligo per le minorenni di informare i genitori o di ottenerne il consenso. Più della metà degli stati prevede un tempo d’attesa che varia da uno a tre giorni e obbliga la donna a sottoporsi ad almeno due visite presso una clinica che pratica aborti. E sono infine 19 gli stati che dichiarano illegale il cosiddetto aborto con nascita parziale – un divieto che la corte suprema ha sancito nel 2007 con la sentenza sul caso Gonzales contro Carhart.

A causa della pressione esercitata da attivisti antiabortisti e assemblee o governi statali a maggioranza repubblicana, molti stati sono oggi decisamente meno favorevoli al diritto all’aborto di quanto lo fossero nei primi vent’anni successivi al caso Roe contro Wade. Il Guttmacher institute, un istituto di ricerca che difende il diritto all’aborto, osserva che quindici anni fa erano solo 13 gli stati a prevedere esplicitamente nel proprio ordinamento un numero tale di limitazioni (quattro o cinque) da essere considerati “ostili” nei confronti del diritto all’aborto. Oggi, gli stati che prevedono almeno altrettante limitazioni sono 27, e 18 di questi ne contemplano sei o più: un quadro giuridico che l’istituto definisce “estremamente ostile” alla libera scelta della donna.

L’udienza del 2 marzo sul caso Whole Woman’s Health contro Hellerstedt doveva esaminare alcune norme il cui presunto intento è di rendere più sicure le cliniche in cui si praticano aborti, ma che in realtà sembrano motivate da un malcelato desiderio di farne cessare l’attività.

Il dibattimento cade in un momento particolarmente delicato nella storia della corte suprema. Con la scomparsa del giudice Antonin Scalia lo scorso 13 febbraio, alla corte è venuta a mancare una delle voci maggiormente contrarie alla sentenza sul caso Roe. Ora tutti gli occhi sono puntati su Anthony Kennedy, un giudice che nel 1992 ha difeso il pronunciamento della corte sul caso Roe, ma che da allora ha sempre votato a favore di tutte le limitazioni all’aborto esaminate dalla corte suprema.

La sentenza della corte suprema sul caso Whole Woman’s Health contro Hellerstedt è attesa per giugno.

(Traduzione di Alberto Frigo)

Questo articolo di S.M. è apparso sul sito del settimanale britannico The Economist.

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