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Il modo giusto di vivere l’isolamento

Parigi, 28 marzo 2020. (Ludovic Marin, Afp)

Permettetemi di cominciare con una confessione personale: mi piace l’idea di essere confinato nel mio appartamento con tutto il tempo a disposizione per leggere e lavorare. Anche quando viaggio, preferisco stare in una bella camera d’albergo e ignorare tutte le attrazioni del posto. Leggere un buon saggio su un quadro famoso per me è meglio che vedere lo stesso quadro in un museo affollato. Ma ho notato che ora questo mi rende più difficile, non più facile, essere costretto a stare a casa. Perché?

Lasciatemi citare ancora una volta la famosa battuta del film di Ernst Lubitsch Ninotchka: “Cameriere! Un caffè senza panna, per favore”, “Mi dispiace, signore, non abbiamo panna, solo latte, va bene anche un caffè senza latte?”. A livello pratico, il caffè rimane lo stesso, l’unica cosa che possiamo fare è trasformare il caffè senza panna in caffè senza latte, o ancora più semplicemente, aggiungere la negazione implicita e fare di un caffè semplice un caffè senza latte. Rispetto al mio isolamento non è la stessa cosa? Prima della crisi era un isolamento “senza latte”. Sarei potuto uscire, ma sceglievo di non farlo. Ora è il semplice caffè dell’isolamento senza possibilità di una negazione implicita.

Il mio amico Gabriel Tupinamba, uno psicanalista lacaniano che lavora a Rio de Janeiro, in un’email mi ha fatto notare questo paradosso: “Le persone che già lavoravano da casa sono le più ansiose e le più esposte al rischio delle peggiori fantasie d’impotenza, perché a determinare la singolarità di questa situazione nella loro vita quotidiana non è un cambiamento di abitudini”. Il concetto è complicato ma chiaro: se non c’è stato un grande cambiamento nella nostra realtà quotidiana, il pericolo viene vissuto come una fantomatica fantasia senza precedenti e per questo ancora più potente. Non ci dimentichiamo che nella Germania nazista l’antisemitismo era più forte nelle zone in cui la presenza degli ebrei era minima: la loro invisibilità li rendeva fantasmi terrificanti.

Misurare il virus
Anche se in autoisolamento, Tupinamba continua a curare i suoi pazienti usando il telefono o Skype. Nella sua lettera osserva sarcasticamente che gli analisti che finora, per motivi teorici, erano rigorosamente contrari al trattamento psicanalitico in absentia, tramite telefono o Skype, lo hanno immediatamente accettato quando, a causa dell’isolamento, ricevere i pazienti è diventato impossibile e non volevano perdere soldi. Il pericolo del coronavirus gli ha fatto venire in mente quello che osserva Freud all’inizio di Al di là del principio del piacere. L’enigma che tormentava Freud era perché “i soldati che erano stati feriti in guerra riuscivano a superare la loro esperienza traumatica meglio di quelli che erano tornati illesi, i quali tendevano ad avere sogni ricorrenti in cui rivivevano le immagini e le fantasie violente della guerra”.

Tupinamba collega questa osservazione al suo ricordo delle manifestazioni di protesta scoppiate in Brasile nel 2013: “Molti miei amici appartenenti a diverse organizzazioni di militanti, che erano in prima linea nelle manifestazioni ed erano stati picchiati e feriti dalla polizia, mostravano una sorta di sollievo soggettivo a essere stati segnati da quegli eventi. All’epoca la mia ipotesi fu che i lividi ‘ridimensionavano’ le forze politiche invisibili che avevano rappresentato quel momento, riducendole a una dimensione individuale e gestibile, mettendo un limite al fantomatico potere dello stato. Era come se le ferite e i lividi segnassero i contorni dell’Altro” (in questo contesto l’Altro è l’agente invisibile che perseguita i paranoici).

Tupinamba osserva che lo stesso paradosso si verificò anche quando scoppiò l’epidemia di aids: “L’invisibile diffusione dell’aids, l’impossibilità di rendersi conto delle dimensioni del problema, era così esasperante che mettere un timbro ‘hiv positivo’ sul passaporto delle persone malate non sembrava un prezzo troppo alto da pagare per dare un contorno simbolico alla situazione. Avrebbe almeno dato una misura alla potenza del virus e ci avrebbe messi in una situazione nella quale, avendolo già contratto, avremmo potuto stare a vedere quanta libertà avremmo ancora avuto”.

Non fare progetti a lungo termine, pensa a oggi, a quello che farai fino all’ora di andare a letto

A questo punto è opportuno ricordare la distinzione che fa Lacan tra realtà e reale: la realtà è la realtà esterna, lo spazio fisico e sociale a cui siamo abituati e all’interno del quale sappiamo orientarci e interagire con gli altri, mentre il reale è un’entità fantomatica, invisibile, e proprio per tale motivo ci appare onnipotente. Nel momento in cui questo fantomatico agente entra a far parte della nostra realtà – anche se ciò significa essere contagiati dal virus – la sua potenza è ridimensionata. Diventa qualcosa che possiamo affrontare (anche se perdiamo la battaglia). Quando questa trasposizione dal reale alla realtà non può avvenire, “o siamo paralizzati dall’ansia paranoide (pura globalità) o ricorriamo a rappresentazioni simboliche inefficaci adottando comportamenti che ci espongono a rischi eccessivi (pura località)”. Queste “rappresentazioni simboliche inefficaci” hanno già assunto molte forme, la più nota delle quali è l’invito di Trump a ignorare i rischi e a far tornare gli Stati Uniti al lavoro.

Comportarsi così è peggio che urlare mentre si guarda una partita in televisione a casa propria come se si potesse magicamente influire sul risultato. Ma questo non significa che siamo impotenti: possiamo uscire da questa impasse prima che la scienza scopra come fermare il virus. Cito ancora Tupinamba: “È meno probabile che i medici in prima linea o le persone che lanciano iniziative di solidarietà vadano in paranoia. Questo mi fa pensare che oggi certe forme di attività politica comportino un vantaggio soggettivo collaterale. Sembra che la politica basata sulla mediazione – e lo stato spesso è l’unico mediatore possibile – non solo ci dia i mezzi per cambiare la situazione, ma dia anche la giusta dimensione alle cose che abbiamo perduto”.

Il fatto che nel Regno Unito più di 400mila giovani sani si siano offerti come volontari per aiutare chi ne ha bisogno è un buon segnale in questa direzione. Ma quelli di noi che non sono in grado d’impegnarsi in questo modo, cosa possono fare per sopravvivere alla pressione psicologica che comporta vivere in un periodo di pandemia? La mia prima regola in questo caso è: non è il momento di cercare una dimensione spirituale, di affrontare il profondo abisso della nostra esistenza. Per usare un’espressione dell’ultimo Lacan: cerca di identificarti con il tuo sintomo, senza nessuna vergogna, il che, per semplificare, significa adottare tutti i piccoli rituali, le formule e i tic che stabilizzano la tua vita quotidiana. Tutto quello che potrebbe funzionare per evitare un crollo psicologico è consentito, perfino alcune forme di rifiuto: “So benissimo quanto è grave la situazione ma… (non ci credo sul serio)”. Non fare progetti a lungo termine, pensa a oggi, a quello che farai fino all’ora di andare a letto. Se funziona, fai come nel film La vita è bella: fingi che il confinamento sia solo un gioco a cui tu e la tua famiglia state partecipando con la prospettiva di vincere un premio.

E, a proposito di film (se hai tempo per vederli), arrenditi a tutti i tuoi piaceri proibiti: distopie catastrofiche, sitcom con la risate incorporate come Will & Grace, podcast di YouTube sulle grandi battaglie del passato. Le mie preferite sono le serie gialle noir scandinave – possibilmente islandesi – come Trapped e I delitti di Valhalla. Anche se questo atteggiamento non risolve tutto, la cosa principale è strutturare la vita quotidiana in modo regolare.

Un altro mio amico, Andreas Rosenfelder, un giornalista tedesco che scrive per il quotidiano Die Welt, mi ha raccontato in un’email il nuovo atteggiamento nei confronti della vita quotidiana che sta emergendo nel suo paese: “Vedo veramente qualcosa di eroico in questa nuova etica, anche tra i giornalisti. Tutti lavorano giorno e notte da casa, facendo videoconferenze e contemporaneamente occupandosi dei bambini o facendoli studiare, ma nessuno chiede perché lo stanno facendo, nessuno pensa più ‘guadagno così posso andare in vacanza’, perché nessuno sa se ci saranno ancora vacanze o se ci saranno soldi. È una visione del mondo in cui hai un appartamento, cose basilari come il cibo, l’amore degli altri e un compito che, ora più che mai, conta. L’idea di avere bisogno di qualcosa ‘di più’ oggi sembra irreale”.

Non riesco a immaginare una descrizione migliore di quella che dovremmo chiamare senza pudore una vita decente. E spero che questa mentalità sopravviva in parte anche quando la pandemia, come c’è da augurarsi, sarà passata.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul numero 1353 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati

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