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Che bello avere una scusa per leggere un libro dietro l’altro

Carol Yepes, Getty Images

Per anni, anche dopo aver finito l’università, ho letto i libri con una matita in mano, sottolineando “citazioni importanti”, prendendo appunti a margine e sottolineando i paragrafi che mi sembravano condensare i temi chiave.

Finché un giorno mi sono resa conto che forse non ce n’era più bisogno. Che in realtà ormai leggevo per piacere e che difficilmente sarebbe arrivato qualcuno all’improvviso a dirmi: “Sotto l’apparente distacco della poesia di Eliot si cela un desiderio romantico di trascendenza. Mi parli di questo aspetto”.

Per un po’ mi sono sentita smarrita: non sapevo come leggere se non leggevo per rispondere a delle domande. Temevo che avrei dimenticato i libri dopo averli letti, e che non avrebbero lasciato un segno su di me se non avessi lasciato anch’io un segno su di loro. E ho cominciato ad accorgermi di com’è diverso il modo in cui parliamo e ragioniamo di libri al di fuori del mondo accademico.

Ho deciso di prendere sul serio questo impegno, perché vincere un premio letterario non è cosa da poco

Per esempio, se un amico ci chiede di cosa parla un libro, rispondiamo: “Parla di una donna che lascia il marito e va a Berlino per diventare pittrice”, oppure: “È un giallo su due amici che viaggiano su un treno”. Ma studenti e recensori intendono in modo diverso quella domanda. E risponderanno: “È un libro sull’amore, la perdita e l’amicizia”. Oppure: “È un libro sul dolore e la storia, sul tempo e l’oblio, sull’atto stesso della scrittura”.

Oggi, dopo anni di lettura disinvolta, sono tornata alla sicurezza della matita e del taccuino, in veste di giurata del Baileys women’s prize for fiction. Lanciato nel 1996, questo premio annuale “celebra l’eccellenza, l’originalità e la leggibilità della narrativa femminile nel mondo”, e così, con questi criteri in mente, sto leggendo una montagna di romanzi, assegnandogli idealmente un voto da uno a dieci e cercando di dividerli in pile di sì e no.

Preferenze e pregiudizi

Il mio taccuino dedica una pagina a ogni romanzo, e già racconta una storia precisa. Un sì a pagina 1, un no a pagina 2; un forse seguito da altri due no secchi. A questo punto entra in scena un nuovo personaggio: il dubbio. La pagina 6 ha un no con due punti interrogativi, la pagina 7 una serie di sì tutti in fila. Sarà più difficile di quanto pensassi.

Comincio già a rendermi conto dei miei pregiudizi, o forse solo delle mie preferenze. Un senso di irritazione per i romanzi in cui tutti i personaggi principali sono straordinariamente belli, come se questo dovesse renderli più interessanti; un grande sollievo ogni volta che le prime pagine rivelano una certa ironia, o almeno la presenza di un qualche senso dell’umorismo. E il fastidio per alcuni termini che ricorrono nelle bandelle delle copertine: ormai non sopporto più la parola “inquietante”.

Ma soprattutto ho deciso di prendere sul serio questo impegno, perché vincere un premio non è cosa da poco. E lo dico per esperienza diretta, visto che non ho mai vinto niente. Be’, in realtà non è del tutto vero. Nel 1984 ho vinto il premio della rivista City Limits per la migliore cantante. Ce l’ho ancora a casa, in un armadio dentro una scatola: uno gnomo da giardino alto 15 centimetri, che regge una piccola targa con il mio nome. All’epoca ero elettrizzata, perché pensavo che fosse solo l’inizio, invece era solo la fine della mia carriera di premiata.

La cosa non mi ha mai provocato grandi angosce. Mi consolo pensando che i premi non sono tutto, anche se il mio discorso di accettazione preferito è stato quello di Kingsley Amis quando ha vinto il Man Booker: “Fino a oggi ho sempre pensato che il Booker prize fosse una pagliacciata da quattro soldi, ma oggi lo considero un attestato estremamente serio e affidabile di merito letterario”.

Sentendolo sono scoppiata a ridere, ma probabilmente è così che si sentirebbe chi finge di non tenerci ai premi, e si ritrova un bel giorno su un palco, con una statuetta tra le mani.

Così, pensando a tutto questo, mi sono messa al lavoro con impegno. E che gioia avere una buona scusa per leggere un libro dietro l’altro! Non disturbatemi, perché sto lavorando, qui in poltrona: faccio letture estremamente importanti.

Avete presente quella scena deliziosa del film Gregory’s girl, in cui il preside (Chic Murray) se ne sta per i fatti suoi a suonare spensierato il pianoforte, e si interrompe solo per dire a chi si affaccia a curiosare: “Sparite, ragazzini!”. Quella sono io, con i miei libri.

(Traduzione di Diana Corsini)

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