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Cambiare le cose è maledettamente difficile

Una bambina gioca accanto a una discarica a Bophal, in India, aprile 2019. (Getty Images)

È successo qualche anno fa.

C’è una mucca morta in mezzo alla strada. È estate e mi trovo a girovagare ancora una volta per luoghi pieni di bambini e di povertà. Mi è stato offerto un bambino da comprare. Sa mendicare in più lingue: tempo uno o due anni potrei comprarmi una Mercedes, mi assicura sua madre con uno sguardo d’intesa.

Il bambino ha la mente sveglia e gli occhi tristi. Non voglio sapere cos’ha visto nella vita.

Sono stato tutta la vita sospeso in mezzo a mondi diversi. Non sono stato mai abbastanza altro per trovare il mio posto. Anche se è evidente che li capisco, parlano tra di loro nella lingua della nonna e mi chiamano straniero.

Non ho la più pallida idea di cosa io sia. Potrei essere quasi qualsiasi cosa, ma mi sento parte di tutto. Ho visto troppi luoghi colpiti da disgrazie e non mi lascio andare facilmente. Ma il modo in cui mi guarda il bambino mi strazia il cuore.

C’è odore di letame, di cadavere, di sudore e di sporcizia. Mi chiedo che diavolo ci faccio qui. Potrei benissimo farmi gli affari miei, limitarmi a scrivere rapporti impeccabili e costruirmi una solida carriera di chiacchierone ben pagato.

Favole e spazzatura
Qualche settimana fa sono stato a Istanbul. Da qualche parte, ai margini della città, vicinissimo a uno splendido quartiere residenziale, c’erano alcune centinaia di persone che vivevano come nel medioevo. Una ragazza leggeva di nascosto un libro di favole. Favole per bambini di quattro o cinque anni più piccoli di lei. La gente intorno si occupava di raccogliere, selezionare e vendere spazzatura.

Nei ghetti le tattiche per imbrogliare usate dai venditori sono praticamente le stesse ovunque, a Mumbai come a Istanbul, a Barcellona, Belgrado, Sofia, Chisinau, Roma, Podgorica o nel quartiere di Ferentari, a Bucarest.

Mi metto a parlare con il bambino che mi sta davanti. Mi racconta di quando chiedeva l’elemosina in Italia e in Germania. Di come viveva in una stanza con altre otto persone. Di pestaggi e di soldi. Di un battesimo a cui ha partecipato una volta uno dei più noti cantanti di manele, un genere di musica molto popolare in Romania.

Dovrei chiamare il servizio per la protezione e la tutela dei minori. Ma non servirebbe a nulla: nessuno viene mai in posti del genere. E se pure dovessero arrivare, molto probabilmente la vita del ragazzo diventerebbe ancora peggiore. I casi di abusi sessuali e di violenza negli istituti statali sono comuni. Una simile alternativa è di fatto un incubo.

Ho una vita schizofrenica, divisa tra i ghetti e gli alberghi di lusso dove si discute di povertà

Nei ghetti, la quantità di bambine che hanno figli fa impressione. Ricordo la scena di una capra che mangiava in tutta calma del cartone all’interno dell’abitacolo di un’auto mentre alcuni bambini scalzi le giocavano intorno. Da qualche parte, non molto lontano, bruciava della spazzatura. Si respirava a malapena e la zona era piena dei resti della lavorazione del piombo. I genitori dei bambini erano rifugiati del Kosovo. Qualche migliaio di persone, soprattutto minorenni, vivevano stipati tra una discarica e un cimitero di automobili abbandonate.

Anche a Tirana ho visto altre centinaia di persone – in maggioranza bambini, come sempre – vivere in una discarica. Un ragazzino che avrà avuto sei-sette anni, con indosso un paio di scarpe spaiate messe al contrario perché troppo grandi, stava riposando e mangiava un cetriolo. Aveva raccolto e smistato spazzatura per ore.

Ho troppi ricordi di questo genere, e la cosa non mi è di grande aiuto adesso che provo a trovare una soluzione per il bambino che mi sta davanti.

Ho una vita schizofrenica, divisa tra due estremi che non fanno che tormentarmi: i ghetti e gli alberghi di lusso dove si discute di povertà. Qualche tempo fa ho curato un rapporto per le Nazioni Unite sui casi di povertà più estrema in Europa. Il rapporto è stato giudicato troppo duro per essere pubblicato o presentato ai dirigenti dell’istituzione. Ma è stato dibattuto in un incontro da un gruppo di esperti, persone abituate a leggere o ad analizzare documenti sulla povertà, ma che non hanno mai messo piede in posti davvero pericolosi.

In Libano, quasi tutti gli “esperti” se ne stavano rintanati in un ristorante alla moda di Beirut e per paura di essere rapiti si guardavano bene dall’avventurarsi nei campi profughi siriani nella valle della Bekaa. In Sudan, l’esperto occidentale che non esce mai fuori della sua zona di sicurezza costa alle istituzioni internazionali ottocento volte più del collaboratore sudanese che fa il lavoro per lui.

Guardo il bambino che ho di fronte e la mucca morta e gonfia in mezzo alla strada, e capisco con stupore quello che so già da tempo, ossia che dovrei rassegnare le dimissioni perché non credo più alle mie chiacchiere e a quelle delle istituzioni per cui lavoro.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è uscito sul settimanale romeno Dilema Veche.

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