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L’Europa e il Regno Unito alla prova dei vaccini

Un centro per la vaccinazione anticovid a Colonia, Germania, dicembre 2020. (Lukas Schulze, Getty Images)

I paesi europei stanno facendo quadrato attorno alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen dopo il fallimento dell’“Unione sanitaria europea” e la decisione, subito ritirata, di ristabilire i controlli alle frontiere tra Irlanda e Irlanda del Nord per sorvegliare la distribuzione dei vaccini. Il desiderio di una linea unitaria europea contro la pandemia è giusto e i ritardi nelle consegne dei vaccini non sono sicuramente colpa della Commissione. Sull’Irlanda del Nord, inoltre, si è fatta subito marcia indietro. Eppure i paladini di Von der Leyen si sbagliano. I disastri dell’Unione nascono da una mentalità centralizzata e federale che non funziona. Per venirne fuori più forte l’Europa deve cambiare rotta.

Nel frattempo il governo di Boris Johnson guadagna consensi. Londra ha deciso di rischiare e ha ottenuto un contratto di esclusiva con AstraZeneca, pagando centinaia di milioni in anticipo e prima dell’approvazione delle autorità sanitarie. Questo ha permesso di creare un meccanismo produttivo solido. Inoltre il sistema sanitario britannico (Nhs) ha gestito le vaccinazioni con efficienza sorprendente. Merito della “libertà” della Brexit, esultano i suoi sostenitori. Ma anche loro hanno torto. La Brexit è un disastro, come dimostrano il caos totale nei porti britannici e il soffocamento delle esportazioni e del settore dei servizi dopo l’esclusione dal mercato unico e dall’unione doganale. A gennaio le esportazioni verso l’Unione sono calate del 68 per cento. Quanto alla “libertà”, anche prima della Brexit il Regno Unito aveva il diritto di sottrarsi alle direttive dell’Unione. Ma i tory sono nazionalisti, e non sanno fare altro. Johnson e il ministro delle finanze Rishi Sunak continuano a prendere cantonate mantenendo come riflesso politico primario un thatcherismo riscaldato e a sostenere che la crisi della City di Londra e delle attività commerciali indotta dalla Brexit è solo un “fastidio iniziale”.

La Commissione europea non avrebbe mai dovuto attribuirsi il compito di distribuire il vaccino come se fosse un governo sovietico

Anche gli europei del continente dovrebbero imparare la lezione. AstraZeneca, nell’ambito del suo accordo con l’università di Oxford, punta a produrre due miliardi di dosi del suo vaccino per l’Europa, gli Stati Uniti e il mondo, al prezzo di tre dollari a dose, molto meno rispetto al costo dei vaccini rivali. È un successo dell’economia sociale di mercato e del cosiddetto capitalismo degli stakeholder (in cui le aziende si fanno carico di interessi più generali), così come un successo è stata la politica vaccinale del governo britannico, basata sulla commistione tra pubblico e privato. Tuttavia i vaccini non sono come gli altri prodotti, e i risultati possono essere deludenti: ecco perché AstraZeneca non è in grado fornire all’Unione le cento milioni di dosi promesse per la fine di marzo. La casa farmaceutica però non meritava che il presidente francese Emmanuel Macron facesse il gioco dei novax dichiarando che il vaccino non funziona per le persone sopra i 65 anni, tra l’altro mentre cospirava con Von der Leyen per costringere i britannici a cedere all’Unione forniture già acquistate. Anche Angela Merkel sbaglia a schierarsi con Von der Leyen.

La Commissione europea non avrebbe mai dovuto attribuirsi il compito di distribuire il vaccino come se fosse un governo sovietico. Non ne ha né le capacità né l’esperienza. Bruxelles avrebbe dovuto limitarsi a delegare la risposta agli stati, garantendo che non ci fosse una guerra al rialzo e creando un robusto sistema interno per la ripartizione dei vaccini tra i vari paesi. Inoltre la Commissione avrebbe dovuto mettere a punto una strategia comunitaria per contrastare i novax e ripudiare il nazionalismo dei vaccini. Nonostante questo la dichiarazione d’intenti dell’Europa – nessun europeo sarà al sicuro fino a quando tutti gli europei non saranno al sicuro – è corretta. L’Unione dovrebbe continuare a rispettarla.

Il Regno Unito invece dovrebbe trovare il modo di affermare questi valori in Europa e sul proprio territorio. Il successo economico e commerciale futuro non risiede nella partnership transpacifica con Australia, Canada, Giappone e Nuova Zelanda, che rappresenta solo l’8 per cento del commercio britannico, o nei porti franchi. Non esiste una compensazione per quello che il paese sta perdendo con la fine dell’accesso ai mercati europei, che sta penalizzando industrie di ogni tipo, dalla musica alla pesca. Se solo Von der Leyen si fosse fidata dell’Europa come economia sociale di mercato, con un equilibrio adeguato tra la velocità e l’uguaglianza e con una Commissione a svolgere la funzione di assistente e arbitro, l’Unione sarebbe piena di vaccini. Allo stesso modo, qualunque successo il Regno Unito otterrà, arriverà solo perché il paese avrà capito come essere “europeo”.

Il destino della Brexit è quello di essere la scintilla per arrivare a questa consapevolezza, sia nel Regno Unito sia nel continente. Per questo Londra deve per forza rientrare nell’Unione. Succederà. A prescindere dai nostri difetti, siamo tutti europei.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul numero 1397 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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