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Una scuola per i rom iracheni

Bambini kawliya durante una lezione nella scuola del villaggio Al Zuhur, 150 chilometri a nord della capitale Baghdad. Iraq, marzo 2018. (Haidar Hamdani, Afp)

Alla fine, dopo quattordici anni di instabilità e paura, i kawliya, i rom che vivono in Iraq, hanno ottenuto una terra dove stabilirsi e una scuola per i loro figli. È un piccolo villaggio chiamato Al Zuhur (le rose), 150 chilometri a nord della capitale Baghdad. In questo poverissimo villaggio, quasi 450 persone vivono in casette di fango e canne che affacciano su strade polverose.

Come in altre parti del mondo, i kawliya hanno sempre cercato di tenersi fuori da cose pericolose tipo la religione o la politica, e per guadagnarsi da vivere si sono concentrati sull’intrattenimento. Ma sono stati perseguitati dai tabù. Nel 2003 il loro povero villaggio fu attaccato da milizie islamiche e i kawliya furono obbligati a smettere i loro tradizionali spettacoli di musica e danza. Con l’aiuto delle Nazioni Unite e dell’ong locale I am a human being, è stata riaperta una scuola in una serie di roulotte che accoglie 27 bambini di età compresa tra i dieci e i dodici anni.

Il diritto ai documenti
I kawliya parlano arabo, in una versione dialettale, e sono musulmani, eppure non hanno documenti di identità iracheni. Per ottenere i documenti ufficiali in Iraq bisogna avere un’abitazione e la residenza in una città ben precisa, e queste persone che viaggiano liberamente non possiedono né l’una né l’altra. Così i kawliya non hanno il diritto a proseguire gli studi o a un lavoro fisso. Negli anni settanta il governo di Saddam Hussein cercò di sistemarli in quartieri dentro e fuori le principali città, ma durante gli otto anni di guerra tra l’Iraq e l’Iran si sono spostati, come vuole la loro tradizione, in altri luoghi.

Tra le autorità e gli iracheni in generale è diffusa l’idea che i kawliya tollerino la prostituzione. Per colpa di questo pregiudizio, dal 2003 molti di loro hanno lasciato l’Iraq. Il loro numero è sceso da 250mila a 50mila persone, che vivono in campi in mezzo al deserto. L’ong I am a human being sta facendo pressioni sul governo perché gli conceda la cittadinanza. Ma le domande con cui si scontra sono sempre le stesse: “Chi sono? Da quale città vengono? Dov’è la loro casa?”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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