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I rifugiati siriani a Istanbul vivono isolati in un mondo parallelo

Rifugiati siriani nel quartiere di Suleymaniye, a Istanbul, il 19 marzo 2015. (Carl Court, Getty Images)

È una bottega come tante altre a Istanbul. Dieci metri quadrati con un odore di caffè macinato e di spezie, un proprietario indaffarato dietro i vasi e che affonda la mano in una grande giara piena di spezie quando una cliente varca la soglia con una banconota in mano. C’è però qualcosa di diverso in questo negozio del quartiere di Esenyurt, a una trentina di chilometri dal centro di Istanbul, sulla sponda europea della metropoli turca.

Qui i cartelli sono quasi tutti in arabo. La clientela è esclusivamente siriana e Mohammed, il gestore, in turco sa dire solo buongiorno e grazie. Arrivato qui da un paio d’anni, Mohammed è fuggito dalla guerra in Siria con sua moglie e i suoi tre figli, per evitare ai figli maschi il servizio militare e per curarsi. Come molti altri, questo curdo di Aleppo è riuscito ad attraversare la frontiera turca sborsando un po’ di soldi, poi ha raggiunto Istanbul e si è stabilito a Esenyurt.

Delimitata da un orizzonte fatto di palazzi nuovi di zecca, alti una trentina di piani, la piccola via commerciale Ali Riza Bey ospita negozi siriani e turchi, ma le due clientele non si mescolano. “Il caffè siriano è troppo forte per i turchi”, dice Mohammed mentre ride e mescola il contenuto della sua tazza.

Esenyurt è diventato un punto di ritrovo per molti siriani in esilio

La conversazione si interrompe all’arrivo di un rappresentante di commercio turco che vuole a tutti i costi vendere dei sacchetti di caffè istantaneo. Mohammed ne compra un cartone, meglio non fare troppe storie. “Rischio di dovermene andare alla chetichella. I turchi esagerano. Aumentano gli affitti per non incoraggiarci a lavorare. Lo fanno con tutti i siriani. Se vuoi avviare un’attività commerciale, devi avere un garante turco, ma se vogliono possono bloccare tutto da un giorno all’altro”, spiega questo ex venditore di batterie che sta nel suo negozio grazie alla mediazione di un prestanome.

Esenyurt è diventato un punto di ritrovo per molti siriani in esilio, in particolare molti curdi del nord della Siria. Per chi non progetta di compiere il viaggio in Europa, è anche un luogo dove stabilirsi. Il prezzo modico degli affitti (300-500 lire turche, tra i cento e i 170 euro), la vicinanza di fabbriche dove si assume a giornata e il passaparola dei primi arrivati hanno attirato i migranti in questo quartiere sorto rapidamente una trentina di anni fa, seguendo il ritmo della travolgente urbanizzazione di Istanbul. Oggi Esenyurt ha quasi 700mila abitanti, il doppio rispetto a sette anni fa.

Questioni mentalità e di permessi

A qualche decina di metri di distanza dal droghiere Mohammed, nel suo piccolo ufficio nel viale della Repubblica, Adem Eselioglu è del tutto impotente di fronte all’afflusso quotidiano di migranti siriani.

In veste di muhtar, il funzionario di grado più basso nell’amministrazione pubblica locale, riceve ogni giorno famiglie siriane per le quali non può fare niente. “Li mando al commissariato per farli registrare, ma non ci sono delle associazioni e io non riesco a comunicare davvero con loro”, ci dice. Non è facile che si creino dei legami tra turchi e siriani. “Se vogliono adattarsi, dovranno lavorare e spendere i loro soldi qui da noi. I siriani hanno una mentalità gretta, se ne stanno tra loro e lo stesso fanno i turchi. Se non lavorano, le cose per loro si faranno sempre più difficili”, afferma.

Il 10 luglio a Bruxelles il ministro turco per gli affari europei Volkan Bozkir ha detto che la Turchia “ha raggiunto la sua capacità massima di accoglienza dei rifugiati”, ossia, secondo le stime di Ankara, due milioni di persone. Secondo il ministro, la Turchia ha fin qui speso 5,3 miliardi di euro per far fronte alla crisi, “mentre l’Europa ci ha promesso solo 70 milioni di euro. E non li abbiamo ancora ricevuti”, ha dichiarato al quotidiano Hürriyet.

Bambini siriani nel quartiere di Suleymaniye a Istanbul, in Turchia, il 19 marzo 2015.

Sul marciapiede di viale della Repubblica, Ahmed pulisce i frigoriferi dell’Alep, un piccolo ristorante in cui si serve pollo alla griglia che inaugurerà tra pochi giorni con qualche amico.

Ferito da proiettili nel corso degli scontri ad Aleppo, Ahmed spiega il percorso pieno di insidie che deve affrontare chi vuole regolarizzare la sua posizione sul territorio turco al di là del semplice permesso di soggiorno per rifugiati, che non permette di lavorare. “Per avere un visto di soggiorno permanente occorrerebbe innanzitutto regolarizzare i nostri passaporti siriani presso il consolato qui a Istanbul, e il regime di Damasco pretende 1.500 lire (500 euro) per le pratiche. Poi servono quasi quattromila lire per presentare una domanda e mesi di attesa per un incontro con le autorità turche. Io invece ho scelto di lavorare”, racconta.

All’inizio Ahmed lavorava in un salone di bellezza: “Il comune non ci aiuta. Ci avevano detto che avremmo ricevuto degli aiuti, ma non è stato così, lavoriamo nelle fabbriche qui intorno per poco o nulla. Io lavoravo sette giorni alla settimana, dodici ore al giorno. Ma dato che mi rifiutavo di lavorare per 800 lire al mese, la metà di quello che guadagnano i turchi, mi hanno licenziato”. In quella fabbrica lavorano ancora sua moglie e i suoi figli, una delle quali, a tredici anni, non può andare a scuola perché è senza documenti.

Anche la decina di siriani riuniti attorno a un tavolo del ristorante Alep si trova nelle stesse condizioni. Senza documenti, alcuni sognano di partire per l’Europa, altri si sono rassegnati a restare qui in attesa di una Siria pacificata, realtà sempre meno probabile. Choukri era professore di inglese all’università di Aleppo, e non pensa di intraprendere il grande viaggio verso l’Europa: “Se saremo certi di avere tutti i giorni il pane in tavola e di essere al sicuro, allora torneremo in Siria. Altrimenti resto qui”.

Choukri è un curdo di una sessantina di anni ed è arrivato a Istanbul nel 2013 con sua moglie, i suoi tre figli e una borsa con dentro pochi vestiti. Lavorando in fabbrica ha risparmiato duemila euro per consentire al figlio più grande, di 21 anni, di raggiungere l’Europa, un viaggio cominciato più di un mese fa. “Ce l’ha fatta, è appena arrivato in Ungheria! Il viaggio è stato duro, soprattutto in Serbia e in Macedonia, ma non è stato aggredito. Vorrei mandargli altri soldi, ma non posso” dice.

Se ci sono disordini, è anche perché qualcuno non li paga dopo una giornata di lavoro

La Siria gli manca, ma per lui, che ha lasciato la sua terra, la sua casa e parte della sua famiglia, la situazione era ormai insostenibile. “Il regime ci terrorizzava, i rivoluzionari non sono riusciti a mettersi d’accordo, la segregazione era quotidiana. Oggi le forze curde si sono impossessate dei nostri beni, ma pensano solo ai loro interessi. Mio fratello si trova ancora lì, ma le cose non vanno meglio rispetto a quando c’era Assad.

Senza documenti la comunità siriana di Esenyurt vive in un mondo parallelo senza contatti con i vicini di casa turchi

Almeno a Istanbul non ci sono troppe tensioni tra siriani, anche se alcuni continuano a considerare noi curdi come cittadini di serie B, anche se siamo tutti quanti in esilio. Nemmeno qui siamo felici”.

Senza documenti e senza una speranza realistica di tornare nel suo paese, la comunità siriana di Esenyurt vive in un mondo parallelo, senza contatti con i vicini di casa turchi. Davanti a un chiosco di kebab siriano, sulla terrazza ombreggiata del bar all’angolo, una decina di turchi gioca a carte e beve tè, ma non ci pensano proprio a far giocare anche i siriani.

“Io non parlo con loro e loro non parlano con me. Aprono i loro negozi, i loro bar e i loro ristoranti. Stanno bene, stanno molto meglio di noi, non hanno spese per la previdenza sociale, perciò possono lavorare per una paga inferiore”, dichiara Askim, che ha rilevato questo bar dopo aver perso il lavoro.

Il suo vicino di tavolo, Muammer, è d’accordo, ma aggiunge con un tono più conciliante: “Abbiamo bisogno di loro! La nostra economia va bene, ma nessuno vuole lavorare. Non abbiamo sufficiente manodopera”. Un altro giocatore esclama: “Queste sono sciocchezze. Loro non sgobbano, sono insopportabili, sono sporchi, non capiscono niente, sono qui di passaggio e non rispettano niente. Poi provocano dei disordini. Sono dei ladri!”. “Se ci sono disordini, è anche perché qualcuno non li paga dopo una giornata di lavoro”, risponde un altro.

Sognare un altro esilio

Nel vicino quartiere di Başakşehir, lo scorso mese di maggio, alcuni turchi hanno attaccato dei negozi gestiti da siriani dopo che dei ragazzi siriani avevano picchiato un adolescente turco. Sono state incendiate delle case e gli abitanti sono stati messi in salvo grazie all’intervento delle forze dell’ordine.

Dopo qualche mese trascorso a Esenyurt, c’è chi comincia a sognare un altro esilio. È il caso di Hamza, che lavora da un barbiere. Figlio di padre curdo e madre turca, Hamza è originario di Aleppo e sa parlare turco, ma ormai ha fatto la sua scelta. Tra qualche mese proverà a entrare illegalmente in Europa per raggiungere dei parenti che si sono già stabiliti in Germania. Sua moglie, incinta di otto mesi, cerca di trattenerlo, ma non c’è niente da fare: “Dice che è pericoloso, che non vuole restare sola con il bambino quando sarà nato, ma non ho altra scelta”.

Per pagare i 1.500 euro richiesti dai trafficanti per il viaggio verso le coste greche, deve lavorare ancora qualche mese. A giugno, sei imbarcazioni sono state bloccate in mare e i loro passeggeri sono stati rimandati in Turchia. L’8 luglio le autorità turche hanno arrestato diversi trafficanti che “provavano” un nuovo tragitto per arrivare in Grecia: 250 persone (siriani, afgani e iracheni) sono state fermate e rimandate verso le coste turche. Ad Hamza non importa, lui vuole aprire un negozio di parrucchiere in Germania, come quello che aveva in Siria.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato all’interno del progetto #OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. Gli altri partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurope, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel.

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