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Piccole storie di resistenza nei campi di Rosarno

L’azienda ortofrutticola MedMa, piana di Gioia Tauro, dicembre 2016. (Andrea Segre e Andrea Segrè)

Alì gioca a ping pong in un’enorme fabbrica abbandonata alle porte di Rosarno, dove fino a vent’anni fa si lavoravano decine di quintali di clementine, i tempi d’oro dei contributi della politica agricola comunitaria.

Alì esiste, ma se non fosse per il suo italiano perfetto sembrerebbe quasi un personaggio di fiction, creato come metafora della situazione della piana di Gioia Tauro: grande crisi economica e strutture industriali abbandonate che ospitano migranti in attesa di trovare un po’ di lavoro, sempre più scarso per tutti.

Sarebbe sbagliato fermarsi qui.

Abbiamo incontrato Alì all’inizio del nostro viaggio nel cuore della piana, a pochi metri fuori da Rosarno, dentro i magazzini della Conagros, dove avevamo in realtà appuntamento con Mimmo, il responsabile della Coldiretti di Rosarno. Mimmo in quel magazzino ci ha lavorato per quindici anni, da ragazzino, quando non aveva voglia di studiare. “Eravamo in centinaia a lavorare qui dentro, qui e in quel magazzino lì di fronte, qui i socialisti e lì i democristiani. Poi sono cambiati i contributi europei, da quintali a ettari e i magazzini non sono serviti più. Non era un’industria sana, anche se chi ci lavorava ci credeva”.

Mimmo poi se ne è andato in giro per il mondo a capire come si coltivava in altri paesi, perché a Rosarno c’era troppa ignoranza e i contadini continuavano a non innovare, a mantenere sempre le stesse piante, le stesse qualità. “Era la quantità il business, ma oggi sulla quantità non siamo competitivi. Un operaio in regola in Marocco o in Tunisia costa un euro al giorno, per non parlare degli spagnoli che possono usare i prodotti chimici a noi vietati. L’unico modo per resistere è cambiare”.

Perché nei supermercati troviamo soltanto agrumi spagnoli trattati con pesticidi che qui neppure usiamo?

Cambiare prodotti, ma cambiare anche mercati. Così hanno deciso i fratelli Corrao dell’azienda MedMa, che dopo aver capito come funziona il ricatto delle aste settimanali imposte dalla grande distribuzione* hanno cercato contratti chiusi per l’intera stagione e li hanno trovato all’est, in Ucraina, in Polonia dove esportano la gran parte dei loro agrumi. “Così riusciamo a dare lavoro e a pagare i piccoli produttori. Ma siamo al limite. I prezzi a cui vendiamo il prodotto sono comunque troppo bassi e le regole troppo complicate. È una lotta quotidiana e non sappiamo quanto potrà durare”.

Intorno al laboratorio di MedMa è pieno di campi abbandonati, dove clementine e arance rimangono appese agli alberi, piccole e grandi palle arancioni in mezzo al verde delle foglie, per poi cadere a terra e marcire. Fa male, ma lo fa ancora di più quando scopriamo che a pochi metri da quei campi, nel supermercato alle porte di Rosarno le arance in vendita arrivano dal Sudafrica.

Una follia senza senso, che Peppino, 80 anni di legame forte con la sua terra, ci fa toccare con mano portandoci nel suo “giardino”. “Perché”, si domanda ad alta voce, “nei supermercati troviamo soltanto agrumi spagnoli trattati con pesticidi che qui neppure usiamo?”.

Rimane tutto appeso e sospeso, come gli altri “scarti”, quelli umani. Che troviamo ammassati nella tendopoli di San Ferdinando, dove campeggia ben evidente la scritta “ministero dell’interno” e “protezione civile”. Un milione di euro per ammassare centinaia di braccia tra tangenziali e silos abbandonati. Accompagnati dalle Giulie di Medu e da Celeste della Flai-Cgil, camminiamo di notte tra buio e pozzanghere, tra griglie e piccoli spacci, bar improvvisati che somigliano molto a dei bordelli e buche piene di rifiuti.

Nei “campi” della piana sembrano esserci solo scarti, alimentari e umani assieme, accomunati dalla stessa sorte. È l’effetto “collaterale” di un mercato senza legalità e trasparenza. Eppure esempi virtuosi ci sono, semi da coltivare e moltiplicare. Come quello di Sos Rosarno, la cooperativa Mani e terra, i Frutti del sole, dove Mimmo, Michele e Nello ci fanno vedere, anzi toccare con mano che una filiera equa e sostenibile è possibile. O come il piccolo comune di Drosi, dove la pazienza di Ciccio e della Caritas locale ha permesso l’ospitalità di 150 lavoratori migranti in case del paese, non in tende di emergenza. O come il Frantoio delle idee di Cinquefrondi, dove abbiamo concluso la nostra camminata, un laboratorio dove una volta si macinavano olive e oggi idee, per dare opportunità nuove a queste terre: un riscatto che parte dallo scarto.

* Il meccanismo delle aste è molto simile a quello spiegato per il mercato del pomodoro da Stefano Liberti e Fabio Ciconte nel rapporto “Spolpati” della campagna Filiera sporca. Per le arance funziona così: il sabato pomeriggio di ogni settimana c’è un’asta online lanciata da diversi soggetti della grande distribuzione per alcuni produttori selezionati, ognuno di loro deve fare un’offerta via email per un tot di quintali richiesti. Se vince potrà fornire la settimana successiva gli agrumi . Un meccanismo che schiaccia i prezzi e genera pratiche di gestione delle aste stesse facilmente soggetti a scorrettezze tra competitors.

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