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Incontro con Francesco De Bartolomeis, maestro smodato del novecento

In una scuola italiana negli anni quaranta. (Thomas D. McAvoy, The Life picture collection/Getty Images)

Francesco De Bartolomeis ha 102 anni, li ha compiuti il 20 gennaio 2020. È nato nel 1918, mentre finiva la prima guerra mondiale, e aveva 21 anni quando scoppiava la seconda. A 26 ha pubblicato – per intercessione di Benedetto Croce – il suo primo saggio, Idealismo e esistenzialismo, attraverso cui faceva già i conti con l’eredità ideologica del fascismo. È un antifascista convinto. Ricorda come passaggio cruciale della sua gioventù la morte di un compagno delle magistrali andato a combattere con i franchisti in Spagna. Non partecipò attivamente alla resistenza ma strinse amicizia con vari partigiani, tra cui Pietro Chiodi, professore di Beppe Fenoglio.

De Bartolomeis da molti anni vive a Torino, in una casa non troppo grande vicino alla stazione, il suo studiolo ha una piccola scrivania ricoperta di libri di storia dell’arte, un settore al quale si è dedicato fin dal dopoguerra. Delle persone anziane come lui in genere si dice che siano lucide per fargli un complimento; ma De Bartolomeis è molto più che lucido: è analitico, puntualissimo, idiosincratico, aggiornato, combattivo.

La sua è la storia della migliore classe intellettuale che questo paese abbia avuto. Quella che negli anni dell’immediato dopoguerra s’inventa una cultura democratica per una società che ancora non esiste. In contatto con il neonato Cemea, con Margherita Zoebeli e il suo asilo svizzero a Rimini, con il gruppo di Ernesto e Tristano Codignola a Firenze e il progetto di Scuola-città Pestalozzi, con Piero Calamandrei e la rivista Il Ponte, con quello che sarebbe stato il Movimento di cooperazione educativa che si muoveva tra Rimini e Fano, traduce i capisaldi del pensiero pedagogico anglofono e francofono: John Dewey, Roger Cousinet, Jean-Ovide Decroly, Celestin Freinet…

Un gruppo trasversale
“Non c’era una sperimentazione come la possiamo intendere noi, c’era innovazione”, mi dice. “Noi ci trovavamo per ragioni pedagogiche, ma quello che era importante era un modo di vivere, di stare insieme”. In quel noi ci sono persone che hanno fatto la storia della pedagogia in Italia: Lamberto Borghi, Bruno Tamagnini, Nora Giacobini, Margherita Zoebeli, Adriano Milani Comparetti, fratello di don Milani.

Rispetto a un mondo settoriale e iperspecializzato come quello delle scienze sociali oggi, la caratteristica principale di questo gruppo di militanti giovani e radicali che immaginavano una diversa politica dell’educazione per poter passare dal fascismo alla democrazia, era la trasversalità: nei progetti, nelle assemblee, si riunivano maestri della scuola d’infanzia insieme a professori universitari, cattolici e comunisti, uomini e donne.

La domanda che viene da fargli è su quali libri si siano formati. “Io non mi formavo su niente tranne che sull’esperienza”, risponde con un accento meridionale di cui non si è sbarazzato del tutto. “Non sono stato discepolo di nessuno. Mentre tutti cercavano di avere un padre, io non volevo il padre per niente. Certo leggevo tanto, non i pedagogisti perlopiù, ma Freud, Marx, Lévi-Strauss, gli Annales…”.

Grazie alla sua elaborazione teorica la pedagogia acquista una sua autonomia nell’ambito delle scienze sociali e dell’accademia. Nel 1953 pubblica La pedagogia come scienza. Esce per La Nuova Italia, la casa editrice di Codignola, un centro irradiante di pensiero democratico e per cui De Bartolomeis ha lavorato come curatore, traduttore, consulente. Diventa un testo miliare.

La grandezza della sua impostazione è l’aver compreso che le politiche sulla formazione e sull’educazione non potevano restare confinate alla scuola e all’università, ma avevano a che fare con la società tutta. “Occorreva passare dal sistema educativo a quello formativo. La scuola è una cosa che sta dentro il sistema formativo”. Già dopo la laurea ha contatti con Adriano Olivetti, che poi lo chiama a collaborare al suo progetto socioeducativo a Ivrea, alle Edizioni di comunità di cui diventò consulente, e ai mille progetti che nascono intorno alla fabbrica. Da Salerno si trasferisce a Firenze per studiare, e da Firenze arriva in Piemonte (qui si trova una sua sintesi dell’esperienza alla Olivetti, qui un suo ricordo più articolato), dove pone in modo innovativo la questione della formazione professionale:

A causa delle caratteristiche del mio modo di praticare la pedagogia, il coinvolgimento dei miei allievi non poteva limitarsi al livello scolastico. A me interessava che nella loro formazione entrassero i problemi del lavoro sperimentati sul campo. Furono organizzati stage in cui gli studenti universitari incontravano tecnici intermedi e superiori in parallelo con la conoscenza delle particolarità dell’azienda in fatto di attrezzaggio, di produzione e di assistenza clienti. Incoraggiai uno studente a prendere come argomento di tesi di laurea la catena di montaggio. La novità: feci assumere il laureando per tre mesi affinché sperimentasse personalmente il lavoro alla catena di montaggio: non doveva limitarsi a osservare, a prendere annotazioni, a descrivere dall’esterno situazioni che premevano per un cambiamento radicale.

Alla Olivetti restò 15 anni. “La scuola era importante, ma per cambiare la scuola si doveva cambiare la società”. De Bartolomeis è socialista perché crede nello spirito comunitario, comunista senza infatuazioni per il sol dell’avvenire, è legato agli enti locali e non alla dirigenza romana del partito, un collaboratore indefesso di qualunque realtà viva di quella stagione definita come stagione dell’attivismo: “Io non sono mai stato un affiliato, non sono mai stato un affiliato di niente”.

È uno dei più importanti pedagogisti italiani di sempre, ma dice: “Non ho maestri, non voglio maestri, ognuno deve essere sé stesso”. E della sua formazione sottolinea soprattutto le vie meno battute: “Non dico che non mi sia stato utile Dewey, ma mi è stato più utile Sullivan”. Ossia Henry Pack Sullivan, fondatore della psichiatria sociale.

Rispetto alla situazione della scuola di oggi è sconfortato. Non è mai stato un disfattista, ha fatto politica attivamente, è stato consigliere nella prima giunta comunista di Diego Novelli a Torino a metà degli anni settanta, ma oggi non riconosce né un fronte democratico né qualcosa che possa chiamarsi sinistra, né un orizzonte nell’azione di governo, né uno stato dell’arte del dibattito pedagogico. “L’essere di sinistra è una roba ormai personale, privata, quindi non esiste, non ha senso”. Per chi per tutta la vita ha insistito su come le comunità e le relazioni condizionassero la propria individualità, le politiche identitarie sono un assurdo: “Il Pd non ha nemmeno luoghi fisici dove vedersi”.

A 102 anni non convive con la sua compagna, che abita a Rivoli, fuori Torino. Non è credente: “Nella maniera più assoluta, devo credere a un personaggio che sta in cielo con la barba che assomiglia a Scalfari?”. Ma, tra gli altri, continua a finanziare l’associazionismo cattolico, come il Cottolengo, per esempio. E coltiva un ottimismo della volontà che traduce con queste parole:

La democrazia cristiana, l’idealismo, ma perfino il fascismo non sono stati veri ostacoli. Un vero ostacolo sarebbe stato un nostro cedimento, ma noi eravamo agguerriti. Così in ogni regime c’è sempre una certa libertà, fosse anche per assenteismo del potere. Anche oggi che non esiste la politica scolastica, esistono però dei presidi che magari si ingegnano, che si danno da fare. Sono meno che isole, certo, sono scogli. Ma possono avvantaggiarsi del fatto che la debolezza dei governanti consiste soprattutto nell’incapacità di impedire.

Che sia agguerrito, lo mostra. Cammina lentamente, ma esce di casa tutti i giorni per andare in piscina e nuota per 800 metri: “Le ultime vasche non forzo, ma ho tutti i valori in regola”. Non legge molto i giornali, ma segue tutto quello che riguarda la politica. Liquida gli ultimi ministri dell’istruzione con un’alzata di spalle: “Tanto non esistendo la politica scolastica, puoi fare ministro un passante, come il ministro Bussetti”. È consapevole della sua solitudine – “Sono morti tutti, sono l’unico superstite”– come del ruolo che la sua visione critica ha avuto anche nella rivoluzione culturale del sessantotto. La ricerca come antipedagogia – pubblicato da Feltrinelli nel 1969 – vendette 80mila copie e diventò un testo di riferimento, in grado di mettere in discussione quelli che Louis Althusser chiamava gli apparati ideologici di stato (la scuola, l’università, eccetera).

Fa impressione ascoltare De Bartolomeis nell’epoca in cui si è nostalgici o paternalisti anche a trent’anni. Soprattutto quando risponde alla domanda che alla sua età tutti gli fanno: come ha fatto a vivere così a lungo? Lui dice: per la smodatezza. Un’insoddisfazione continua per il presente, un desiderio inesausto di politica, la rivendicazione del potere della ricerca: “La ricerca ti fa confrontare sul nuovo, l’ideologia ti fa sempre presumere il risultato”, dice, e poi mi congeda in fretta perché deve rimettersi a leggere e studiare.

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