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Due settimane in Angola, paese di diamanti, petrolio e miseria

Vista sulla Marginal, il lungomare di Luanda, marzo 2017. (Matteo de Mayda)

Prima di Luanda: cimiteri di navi (l’arrivo)
Il celeste diventa sabbia bianca, una linea che si allontana a 45 gradi dall’ala in alluminio e fibra. Provi a mettere a fuoco: due, tre e altri ancora, lungo la riva. Relitti arenati, ponti, paratie e carene di nero e rosso rovesciate sopra la linea dell’acqua: l’Angola si preannuncia così al viaggiatore, prima ancora che dall’aereo sia possibile scorgere la baia di Luanda.

Della “spiaggia delle navi morte” si dice sia uno dei più grandi cimiteri d’Africa. Difficile sapere perché siano state abbandonate proprio qui. Possibile non fossero più in regola con le assicurazioni e che siano state arenate a una distanza di sicurezza dal porto di Luanda. Un mistero sotto il sole tropicale.

Per raggiungere la spiaggia via terra si percorre la strada che da Luanda punta a nord, verso Caxito. Poi una traversa a sinistra e tre chilometri in direzione dell’Atlantico, fino al cimitero delle navi. Non l’unico, in Angola: il “Palacio de ferro”, un edificio giallo canarino attribuito anche a Gustave Eiffel, sarebbe stato montato a Luanda con i materiali trafugati da un mercantile francese finito sulle dune della Skeleton coast. Pare fosse diretto dall’altra parte dell’Africa, in Madagascar.

Isole di terra rossa (1° giorno)
Distesa di baracche calpestate da un gigante. Blu, azzurro, rosa e sabbia: sono i tetti multicolori delle musseques, i quartieri della miseria, legno, stracci e lamiere di alluminio corrugato. Scorrono lungo la pista dell’aeroporto che commemora l’insurrezione contro i portoghesi, 4 febbraio 1961.

A delimitare i quartieri strade di terra rossa, percorse da camion e motociclette che navigano tra isole di baracche impenetrabili: sono attaccate l’una all’altra e non si passa. Spezzano il ritmo le tribune di un impianto sportivo. Sediolini gialli su grigio cemento. È lo stadio dell’Inter Luanda, una delle squadre di calcio della capitale. Ha 40mila posti ma in strada le magliette dei bambini sono quasi tutte rosse e nere: i colori del Primeiro d’Agosto, la squadra delle forze armate, nata il 1° agosto 1977, in piena guerra civile.

Sera sulla Marginal (2° giorno)
La prima tappa per lo straniero che arriva a Luanda è la Marginal, il lungomare. Simbolo di una capitale che, 15 anni dopo la fine del conflitto civile, sogna di diventare Dubai. Visione, propaganda, illusione. Il boom petrolifero, con il barile a 160 dollari, appartiene al passato. Te ne accorgi passeggiando sotto la Fortaleza di São Miguel, costruita a difesa del porto dal governatore portoghese Paulo Dias de Novais. Dopo il tramonto, ragazzini in ciabatte si inseguono, spingono, urlano ai suv. Poi ridono e scompaiono tra le palme e l’Atlantico, lungo la ciclabile disegnata sette anni fa, cartolina di una Luanda tutta nuova.

Eppure la Marginal, il lungomare più ricco e scintillante d’Africa, ha perso molte delle sue luci. I generatori, cubi di grate e cemento a pochi metri dall’oceano, ne tengono accese solo alcune. Viene e va in cima al grattacielo la scritta rossa e bianca di Sonangol, la compagnia petrolifera di stato, snodo della ricostruzione economica dell’Angola affidata ora a Isabel, la figlia del presidente José Eduardo dos Santos. Accanto ai neon, però, incombono sagome scure che sembrano fantasmi. Come uno dei grattacieli più alti, scheletro di cemento piazzato a metà dei due chilometri di passeggiata.

“Dovrebbe ospitare solo uffici ma i lavori vanno avanti piano, non è più come qualche anno fa”, dice Vicente Cabral, avvocato nella cidade baixa che fa jogging lungo la Marginal. Non abita lontano: sta nel quartiere di Alvalade, dove di sera le lampadine sono accese. Lunedì e mercoledì per la verità non è andata così, ma vuoi mettere rispetto alle musseques. “Lì ci vivono i figli dei profughi arrivati dalle campagne durante la guerra”, spiega José Lukamba, che lavora come guardia privata sul lungomare ma nelle baracche di legno e lamiera c’è nato: “Nelle periferie la corrente e pure l’acqua mancano da tre settimane”.

È l’altra faccia dell’Angola ex tigre africana. Dopo la guerra civile, con il petrolio e i diamanti al servizio di un progetto di sviluppo, il paese aveva cominciato a cambiare e preso velocità. Il prodotto interno lordo era cresciuto ogni anno con tassi a due cifre, sia pur partendo da un livello tra i più bassi al mondo. Poi però c’è stato il crollo del prezzo del greggio, passato nell’arco di due anni da 160 a 55 dollari al barile. Della crescita vorticosa sono rimasti progetti imponenti e costosi. Come la diga idroelettrica di Lauca, 400 chilometri a est della capitale lungo il fiume Kwanza, l’opera di ingegneria civile e meccanica più grande nella storia dell’Angola.

Per realizzarla sono stati preventivati investimenti per cinque miliardi di dollari. João Manuel Gonçalves Lourenço, il generale che ad agosto dovrebbe succedere a Dos Santos, ha promesso di portare l’elettricità nelle case di cinque milioni di angolani. Accanto al suo volto sorridente sulle pareti dei palazzi, stella gialla in campo rosso e nero, c’è il logo del Movimento popular de libertação de Angola (Mpla) e la scritta “Com o povo, rumo a vitoria”. Tradotto: con il popolo fino alla vittoria, ripartendo dalle dighe.

Oltre a Lauca, quelle di Cambambe e di Capanda, parte di un piano da 20 miliardi che entro il 2025 mira a garantire una potenza installata di novemila megawatt. Ma il problema, ora, potrebbero essere proprio i soldi. Lo schema prevede partenariati pubblico-privato e finanziamenti con buoni del tesoro. “L’obiettivo è riaccendere l’Angola, cominciando dalla Marginal e dall’Ilha do Cabo, con le discoteche dei vip dall’altra parte della Baia” dice Lukamba: “Prima o poi magari toccherà anche alle musseques”.

La linea che separa le baracche dei quartieri poveri dalla zona ricca di Luanda, marzo 2017.

Zungheiras (3° giorno)
La Fortaleza di São Miguel, alta sul promontorio, è un buon punto per osservare i cerchi concentrici che separano il lungomare dai quartieri delle periferie. Da un lato, si vede la baia; dall’altro, ruspe che si aggirano tra resti di baracche. Uno degli edifici simbolo della Marginal, in stile coloniale, rosa e bianco, ospita la Banca centrale d’Angola. È il cuore della cidade baixa, adiacente al parlamento e al palazzo del presidente.

Zone interdette alle zungheiras, le venditrici di strada con bacinelle di plastica in equilibrio sulla testa. Offrono frutta, dentifrici e bulinos, i panini dolci amati dagli angolani. Spesso sono ragazzine che potrebbero andare a scuola e invece sono costrette a cercare piccoli guadagni. “Alla Marginal non le fanno proprio avvicinare” dice Jeronimo Djalma. Lavora al mercato della Divina, una delle tappe delle zungheiras: “Arrivano da fuori, spesso scalze; camminano chilometri in direzione del mare, attente ad aver sempre una via di fuga nel caso si affacci la polizia”. Eppure, da un po’, qualcosa è cambiato. “Il governo si è reso conto che c’è crisi”, spiega Djalma, “e chiede alla polizia di lasciarle stare”.

Crisi a Kikolo (4° giorno)
Crisi: è la parola chiave anche a Kikolo, un sobborgo a nord di Luanda. “Le famiglie hanno difficoltà perché costa tutto molto di più, dal gasolio all’acqua, dalle verdure al pesce surgelato dai cinesi”, dice padre Renzo Adorni, un missionario italiano in Angola da 18 anni. Racconta delle scuole della parrocchia del Bom Pastor, seimila studenti e una certezza: “La retta mensile non vale più di tre o quattro birre e serve appena a coprire le spese di manutenzione, ma i genitori spesso non ce la fanno”.

Di fronte al crollo del prezzo del barile, la Banca centrale ha introdotto una serie di restrizioni per difendere la moneta locale e la stabilità. In Angola oggi è impossibile ritirare euro o dollari, e tanti dipendenti pubblici non riescono a incassare gli stipendi neanche nella valuta locale. “A volte”, conferma padre Adorni, “i nostri maestri tornano dalla banca a mani vuote perché mancano kwanza”. Di che aria tiri lo capisci dai ragazzi che ti corrono incontro non appena l’auto rallenta. Infilano la testa nel finestrino spingendosi l’un l’altro. Chiedono di acquistare dollari o euro: sono sicuri che il kwanza andrà ancora giù.

In cerca di dona Cartagina (5° giorno)
“E dona Cartagina? Non ci posso pensare: e se non ci fosse più? Mi sembra impossibile. Senza dona Cartagina non riesco a immaginare né Luanda, né l’Angola, né tutta questa guerra. Ecco perché sono certo che, se mai andrete a Luanda, una mattina o l’altra incontrerete una vecchietta canuta diretta all’hotel Tivoli”. Scriveva così Ryszard Kapuściński aggiornando il suo libro-reportage Ancora un giorno (Feltrinelli 2000).

Da corrispondente dell’agenzia di stampa polacca Pap, Kapuściński aveva raccontato l’assedio di Luanda. Tre mesi trascorsi proprio all’hotel Tivoli, alto sulla baia, poltroncine e arredi ancora anni settanta. Nella hall, se fai il nome del cronista, sorridono imbarazzati: “Mai sentito, doveva essere altrove”. Eppure, all’ultimo piano, nella sala ristorante, corrisponde quasi tutto. Se chiedi al maître di scostare le tende riesci a immaginarli, i mercantili delle linee oceaniche che stazionano lungo la costa e i comandanti in contatto con l’Europa, informati sull’Angola meglio dei pochi giornalisti stranieri.

Sono i primi di novembre, anno 1975. Da nord avanzano i miliziani del Frente nacional de libertação de Angola (Fnla) di Holden Roberto, ricevuto da John Fitzgerald Kennedy e sostenuto dallo Zaire di Mobutu Sese Seko. Da sud marciano i sudafricani, che puntano a prendere Luanda in due settimane. Kapuściński lo sa perché ha un’informatrice: dona Cartagina, la cameriera. All’11 novembre, il giorno fissato dai portoghesi per l’indipendenza dell’Angola, manca poco. Secondo Maria, una degli ospiti dell’hotel, “sarebbero morti tutti e Luanda sarebbe diventata un grande cimitero abitato da iene e avvoltoi”. Non è andata così. Anche se una scuola tinteggiata d’azzurro copre metà panorama, il Tivoli resiste. E Maria Simão, la cuoca, offre kululu: pesce fresco ed essiccato con peperoni e verdure, tipico angolano.

Uno scorcio dell’hotel Panorama, marzo 2017. Era considerato l’albergo più bello della capitale, oggi è in stato di abbandono.

Hotel Panorama (6° giorno)
Fischiano e urlano, i ragazzini affacciati al quinto piano. L’hotel Panorama non ha più pareti, ma resta casa loro: per curiosare si deve chiedere permesso. Domingos Bonifácio, barista e guida improvvisata, assicura che fosse “l’albergo più bello della città”. Oggi le pareti sono annerite e le scale pericolanti, ma vuoi mettere il panorama. Lo si intravede oltre i calcinacci, sopra un muraglione che fa da confine a un villaggio di accampati, tende e rifiuti accanto a una piscina riempita di terra e ragnatele. Dall’altro lato della baia corre la Marginal, il lungomare dei grattacieli.

L’hotel Panorama fu costruito all’inizio degli anni settanta, prima della rivoluzione dei garofani in Portogallo e dell’indipendenza angolana. L’architetto Carlos Moutinho aveva progettato un parallelepipedo di fronte al mare, con centinaia di stanze e geometrie moderniste. Oggi nudi pilastri sorreggono uno scheletro abitato da fantasmi: i ragazzini che, intanto, sono scesi giù. Hanno dieci, 12, 14 anni al massimo.

Si muovono lenti, lasciandosi fotografare. “La sera sniffano colla o benzina, le droghe dei poveri, e qui è pericoloso”, avverte Domingos. Mesi fa al Panorama hanno trovato il cadavere di una ragazzina. Padrone di territori e quartieri, le gang di Luanda hanno raggiunto anche la Ilha do Cabo, la penisola che chiude la baia con night e discoteche: dal Miami Beach all’Alkaal, pesce, vino bianco o champagne. E l’hotel? È fallito con la guerra e l’arrivo degli sfollati.

A Morro da Luz, nella villa di Neto (7° giorno)
Piastrelle azzurre sbeccate sfumano nello stagno di bottigliette di plastica, tappi e zanzare che ha occupato l’invaso. Estrela, 17 anni, tiene in braccio Miguel che non ne ha compiuti due. Guarda seria di fronte a sé, mentre in questo bairro alto sul mare a sud di Luanda il suo vicino di casa Ambroise spiega: “Fu la villa di gioventù di Antonio Agostinho Neto, il primo presidente, il padre dell’Angola indipendente”.

L’Unione Sovietica non esiste più, e in questo paese di petrolio, diamanti e miseria è finita anche la guerra civile. Ora la piscina è una discarica assediata dalle baracche degli sfollati, ma che bello doveva essere. In basso, guardando oltre l’autostrada che porta agli ipermercati e ai nuovi condomini dei petrolieri, si vedono le palme, l’oceano e alcuni dei relitti delle navi da guerra che punteggiano il litorale nonostante 15 anni di pace.

Morro da Luz, “la collina della luce” dove abitò Neto, indipendentista e rivoluzionario, marxista e poeta, è un belvedere costruito su una montagna di spazzatura. Proprio così. Dai fianchi della collina scende un mare di sacchetti, brandelli, bottiglie e bidoni: sono queste le fondamenta delle baracche che hanno circondato la villa di Neto. Sulle pareti azzurre, accanto al portico d’ingresso, brilla il sole dei tropici.

E i bambini la fanno da padroni. Corrono trascinando bambole e copertoni, agitano treccine, rovistano nella spazzatura. Se torni giù, dalla strada, li vedi scalare a mezzacosta. Attenzione però a non fotografarli. A circa cento metri, infatti, c’è il muraglione della villa residenziale del presidente José Eduardo dos Santos: ettari di parco circondati da telecamere di sicurezza, luogo sensibile, vietato a giornalisti e curiosi. “Simbolo della disuguaglianza”, accusa il portale online Club K.

Forse è vero, di certo non è l’unico. Basta proseguire lungo l’autostrada, fino a Talatona, la città nuova per i funzionari e gli impiegati delle società petrolifere. Alberghi, grattacieli e condomini in costruzione, progettati negli anni del barile oltre i cento dollari, si susseguono uno dopo l’altro. C’è anche un po’ d’Italia, con il Dolce Vita e l’hotel Florence. Non lontano, lungo l’autostrada, sfila un cubo vetro e acciaio: è un ipermercato della catena Candando, proprietà di Isabel Dos Santos, la figlia del presidente che amministra pure la società petrolifera di stato.

E Morro da Luz? Sulle baracche ci sono segni di vernice e numeri in progressione. Vuol dire che sono illegali e che saranno abbattute. “Dicono di dover ripulire la zona, pare abbiano in programma di costruire case nuove”, spiega Ambroise, 40 anni, due bimbi per mano tra le lamiere di alluminio e la discarica. Come i suoi vicini, è arrivato sul Morro nell’ultimo periodo della guerra, al tempo dell’offensiva finale del Movimento popular de libertação de Angola, il partito di Neto e pure di Dos Santos. Potrebbe essere costretto a partire ancora.

Uno dei numerosi monumenti dedicati ad Agostinho Neto, padre dell’Angola indipendente, marzo 2017.

La strada per la Namibia (8° giorno)
Lungo la strada che collega il confine namibiano alla città angolana di Lubango si alternano macchia riarsa e acquitrini. Ieri è piovuto tutto il giorno: temporale tropicale, una benedizione dopo anni di siccità. Oggi spostarsi sarebbe potuto essere impossibile, ma per fortuna la strada è asfaltata e corre veloce. È la stessa, interminabile, percorsa da Kapuściński insieme con il comandante Diogene nell’ottobre 1975. Da Lubango verso Pereira d’Eça, il vecchio nome portoghese di Ondjiva, dove era acquartierato il reparto del comandante Farrusco: 1.200 uomini per difendere il fronte meridionale, 1.200 chilometri dall’Atlantico allo Zambia.

Bandiere a Xangongo (9° giorno)
Carri armati giallo-sabbia e ruggine arrostiscono sotto il sole come scarafaggi. “Ammazzavano gli angolani”, urla in portoghese una donna sulla sessantina, che tiene una fascina di legno in equilibrio sulla testa. Pochi passi e le presentazioni. Si chiama Maria Isabel e arriva dalla pista asfaltata che da Ondjiva punta su Lubango, ai piedi dell’altopiano.

Gli scafi corazzati, modello Panhard, si mimetizzano tra i baobab e la sterpaglia del mato, la savana del sud dell’Angola: sono ciò che resta dell’operazione Orange, scattata il 19 ottobre 1975. Dal confine della Namibia colonne sudafricane puntarono verso nord su Pereira de Eça, il nome coloniale di Ondjiva, il capoluogo della regione del Cunene. Il piano prevedeva l’arrivo a Luanda in due settimane, in tempo per la proclamazione d’indipendenza dal Portogallo prevista l’11 novembre. L’obiettivo era installare un governo di coalizione che tagliasse fuori l’Mpla, il Movimento popular de libertaçao de Angola accusato di legami con l’Unione Sovietica.

“Giorni terribili, come nel 1981, quando dovemmo scappare a Huila”, ricorda Maria Isabel, che intanto si è seduta. La guerra civile sarebbe durata 27 anni, con una coda velenosa ben oltre la fine della guerra fredda e dell’apartheid in Sudafrica.

L’União nacional para a indipendencia total de Angola (Unita), inizialmente sostenuta dal regime segregazionista di Pretoria, oggi è solo un partito politico. Lungo la strada per Lubango ci sono anche le sue bandiere, rosse e verdi con il gallo e il sole che sorge. L’Angola è in campagna elettorale: la registrazione degli aventi diritto al voto nelle elezioni, in programma ad agosto, si è appena conclusa. Il presidente in carica da 37 anni, José Eduardo dos Santos, ha annunciato che non si ricandiderà. A prendere il timone dell’Mpla, al governo a Luanda dal 1975 anche grazie ai consiglieri sovietici e cubani, sarà l’attuale ministro della difesa João Lourenço. Il suo volto, sorridente e fiducioso, guarda dai manifesti incollati alle pareti di case e baracche.

Come a Xangongo, una cittadina dove adesso c’è un comizio elettorale. Le donne cantano, sventolando i vessilli della lega femminile dell’Mpla. Dappertutto le bandiere del partito, rosse e nere con la stella gialla. Alle ultime elezioni, nel 2012, l’Mpla ha conquistato più del 70 per cento dei seggi in parlamento. Anche ad agosto potrebbe andare così.

Troppo deboli l’Unita e il nuovo partito di opposizione, Casa-Ce, che fatica a conquistare sostenitori fuori dalle città. E troppo forte l’attaccamento alla pace, bene irrinunciabile per 25 milioni di angolani. “Anche se i candidati dell’Mpla non mi piacessero li voterei lo stesso perché non voglio più la guerra”, dice Germana, 30 anni, venditrice al mercato di Xangongo. Se cerchi qualche spiegazione in più, bisogna esser pazienti: non si parla volentieri di un fratello o un padre ucciso, di case bruciate e fughe nel “mato”, giorni a mangiare erba per non essere scoperti.

Difficile allora che attecchiscano le parole d’ordine dell’Unita, che accusa l’Mpla di corruzione e già denuncia brogli. Meglio provare a credere alle promesse di Lourenço: nei comizi dice che la diffusione della “povertà estrema” è conseguenza della guerra e che con il suo governo la classe media arriverà a costituire il 60 per cento della popolazione. La chiave sarebbero gli investimenti privati, da incentivare attirando capitali dall’estero, non solo da Cina, Brasile, Europa e Nordamerica ma anche da altri paesi africani.

Memoriale a Xangongo (10° giorno)
Al centro del piazzale sterrato, tra la caserma di polizia e l’ospedale, c’è un monumento: la bandiera nazionale rossa e nera, machete, ruota dentata e stella; una “v” che sta per vittoria; una targa nera che rende omaggio “agli eroi angolani e agli internazionalisti cubani”. I militari e i consiglieri inviati dall’Avana non furono più di dieci o dodicimila. In Angola arrivarono nel nome della solidarietà socialista, per rompere l’assedio di Luanda e contrastare il sostegno zairese e sudafricano all’Unita.

Il loro nemico era Jonas Savimbi, capo dei guerriglieri anticomunisti: Ronald Reagan lo definì “un eroe che lotta contro l’impero del male”, ma lui in realtà era solo un angolano. Figlio di un capostazione, educato in una scuola di missionari, studente di medicina a Lisbona, partecipò alla lotta anticoloniale denunciando le élite urbane più a contatto con i portoghesi. Un’accusa che avrebbe riproposto all’indirizzo dell’Mpla, il partito di Antonio Agostinho Neto e di José Eduardo Dos Santos, fino alla morte. Il 22 febbraio 2002 è un giorno che ha cambiato la storia dell’Angola. Trascorsi dieci anni dalla fine della guerra fredda, abbandonato anche dagli Stati Uniti, Savimbi è solo. Cade in battaglia, nell’altipiano orientale, dopo essere sopravvissuto a dieci tentativi di omicidio ed essere stato dato per morto 15 volte. Gli angolani, ricorda ora Armando Costa, un militante dell’Unita, ci credettero solo dopo aver visto in tv le fotografie del cadavere e aver saputo della conferma del governo americano.

L’Angola e Roma: una storia a testa in giù (11° giorno)
La prima descrizione delle terre oggi parte dell’Angola è opera di un vicentino, Filippo Pigafetta, autore nel 1591 della Relatione del reame di Congo et circonvicine contrade. Il regno aveva come capitale Mbanza Congo, oggi una cittadina di provincia. È da lì che nel 1604, mentre i portoghesi ampliavano possedimenti e influenze in Africa, partì Antonio Manuel Ne Vunda. Tre anni più tardi, dopo essere stato sequestrato dai pirati e costretto dai venti a far tappa in Brasile, il “negrita” sarebbe diventato il primo diplomatico africano accreditato presso la Santa Sede.

A inviarlo in missione era stato il re del Congo, il convertito Álvaro II, che sperava nel papa per arginare l’invadenza dei portoghesi. Per avere un’idea di chi fosse l’ambasciatore basta recarsi sul colle dell’Esquilino, a Roma. Nel battistero della basilica di Santa Maria Maggiore c’è un busto singolare, scolpito con pietra nera, nella quale sono incastonati occhi bianchissimi.

La Casa de espera (casa d’attesa), accanto all’ospedale di Chiulo, dove le donne in procinto di partorire si trasferiscono per ricevere assistenza. E’ gestito dalla ong italiana Medici con l’Africa Cuamm, marzo 2017.

La Casa de espera, a Chiulo (12° giorno)
Superata Xangongo, proseguendo in direzione dell’Atlantico, si passa per Chiulo. La strada si allarga in una rotonda e, sulla destra, conduce a una chiesa. Accanto al campanile i resti di una missione centenaria e due scuole: sono sperdute nella macchia riarsa, dove non piove per dieci mesi all’anno e l’altopiano angolano dirada verso il confine con la Namibia.

Eppure a Chiulo vengono da lontano, percorrendo decine di chilometri, anche a piedi. A camminare sono soprattutto le donne. Hanno sentito della Casa de espera: in muratura, dipinta di giallo, un portico per accogliere le nuove arrivate. In portoghese rimanda all’attesa, in italiano sa di speranza. Di fronte, due alberi regalano un po’ d’ombra. È qui che le donne incinte si riuniscono per mangiare, chiacchierare, intrecciare ceste, riposare. Oggi sono un’ottantina ma con i primi figli, i fratelli e le madri che le accompagnano formano un villaggio.

Al tramonto accendono fuochi su fornelli di pietra o terra, dove cuocere riso, a volte funge, la polenta angolana preparata con miglio e massango. Cucina anche chi è al settimo o all’ottavo mese: come Eduarda, 25 anni, alla seconda gravidanza. Per arrivare ha impiegato due giorni, ma pazienza: la Casa è accanto all’ospedale, “dove ci sono i dottori”. A chi le chiede perché si sia messa in cammino Eduarda risponde di non voler perdere un altro figlio. Nell’ospedale, insieme con gli infermieri angolani ci sono i cooperanti dell’ong padovana Medici con l’Africa Cuamm: ostetriche, ginecologhe e pediatri, specialisti venuti qui per aiutare i bambini e le mamme.“Appena arrivate fanno il test dell’aids, misurano la pressione, prendono l’antimalarico e l’acido folico”, spiega Germana Tuitileni, una levatrice che fa girare la voce nei villaggi.

Nella Casa de espera resta chi ha una gravidanza difficile, è in prossimità del parto o semplicemente preferisce così. A chi abita lontano ed è alle ultime settimane il ritorno al villaggio è sconsigliato: nella stagione delle piogge le strade si allagano e raggiungere l’ospedale può diventare impossibile o richiedere comunque troppo tempo. Qui, nella regione del Cunene, l’80 per cento dei parti avviene ancora nelle case e i tassi di mortalità sono tra i più alti al mondo. L’ospedale è l’unica struttura dove c’è una sala operatoria e, in caso di complicazioni, sono possibili cesarei e trasfusioni di sangue. Ma la crisi del petrolio si fa sentire. “La maggioranza dei nostri dipendenti non sta ricevendo lo stipendio da mesi”, spiega Judite Ndilimondjo. È la direttrice, e sogna un corso per specializzandi in assistenza materno-infantile: adesso c’è solo a Lubango, troppo lontano.

Ma dov’è il Cigno nero? (13° giorno)
Di ritorno a Ondjiva si supera il ponte sul fiume Cunene, quello attraversato dall’esercito sudafricano che rientrava sconfitto dalla guerra. È il 27 marzo 1976: i soldati marciano in silenzio mentre i combattenti dell’Unita, che li hanno accompagnati, si gettano nel fiume gridando; il ponte è riservato ai bianchi e, tentando di raggiungere la Namibia a nuoto, molti affogano. E oltrepassato il Cunene? Torniamo a Ondjiva, 40 anni dopo, magari per ritrovare la locanda di Farrusco, il comandante dell’Mpla: dovrebbe stare all’ingresso della città.

Dall’aeroporto, in auto, sono pochi minuti. Sfilano palazzoni che i cinesi hanno tinteggiato di rosa e la cattedrale che il vescovo ha voluto a tutti i costi nonostante altri e più pressanti bisogni. Chiedi a un poliziotto, ai venditori al mercato, infine a una signora anziana che potrebbe ricordare: “Conosce il Cigno nero?”. In portoghese si dice “cisne preto” ma in mumbi, il dialetto locale, chi lo sa. Si riparte dopo qualche ora, senza averlo trovato: un’altra storia solo sfiorata, una buona ragione per tornare.

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