L’isola di Capraia nel 1947. (Touring Club Italiano/Getty Images)

All’indomani dell’unificazione italiana, le colonie penitenziarie agricole irruppero nel dibattito sul sistema penale dello stato appena nato. Nel clima di crescente malessere sociale che attraversava l’Italia, le colonie agricole sembrarono la soluzione più immediata su vari fronti: la valorizzazione agraria del paese, la riabilitazione dei detenuti tramite la funzione “emendatrice” del lavoro e lo sviluppo di modelli sociali legati al mondo rurale.

La prima colonia agricola penitenziaria fu istituita nel 1858 sull’isola di Pianosa nell’allora Granducato di Toscana e costituì un modello per gli stabilimenti dello stesso tipo nei primi decenni dopo l’unità. Fra il 1868 e il 1878 furono inaugurate sei colonie agricole: in Toscana a Gorgona, Capraia e Montecristo, in Sardegna a Castiadas e a Isili e la colonia chiamata delle “Tre fontane” nell’agro romano.

Ben presto si privilegiarono luoghi isolati, malsani e disabitati: erano sufficientemente inospitali per la funzione punitiva a cui miravano le colonie e il lavoro dei detenuti non faceva in alcun modo concorrenza al lavoro libero. Nel 1904, quando la legge per il dissodamento delle terre incolte permise al governo di usare i condannati nelle bonifiche agrarie, le colonie agricole si caratterizzarono sempre più come siti di deportazione interna.

Concepite come strumenti di ingegneria sociale, le colonie avrebbero dovuto contribuire al processo di ristrutturazione socioeconomica dei territori dove erano impiantate, attraverso un intervento di bonifica agraria che andava di pari passo con la bonifica “umana”.

La vita quotidiana dei detenuti-coloni era minuziosamente scandita da un insieme di regole che miravano alla formazione del buon agricoltore e al miglior sfruttamento possibile del lavoro dei reclusi. Anche attraverso norme igieniche e alimentari, gli statuti di queste strutture detentive miravano a intervenire sul corpo dei detenuti per forgiare masse disciplinate e agricoltori efficienti.

Strutturate in diramazioni, ossia vere e proprie sotto-colonie o unità di produzione, le colonie furono organizzate per ridisegnare il territorio in vista della formazione delle future colonie “libere”, dopo il lavoro di dissodamento e bonifica a opera dei detenuti.

Un progetto rimasto sulla carta, ma che dà la misura della concezione governativa dell’intervento socioeconomico per i territori a vocazione agricola del paese, nel lungo arco di tempo che va dall’unità al ventennio fascista.

Quello che invece si realizzerà sarà l’estensione dei confini delle colonie nei territori circostanti, con una progressiva contaminazione fra il dentro e il fuori degli stabilimenti penali. Scambi commerciali più o meno leciti, evasioni di reclusi, attraversamenti di uomini e donne dal territorio “libero” a quello penale sovvertirono l’idea di creare tramite le colonie laboratori chiusi e isolati di ingegneria sociale dove educare e forgiare i nuovi cittadini della nazione italiana. ◆

Francesca Di Pasquale è archivista presso la Soprintendenza archivistica della Sicilia-Archivio di Stato di Palemo.

F. Di Pasquale, On the edge of penal colonies: Castiadas (Sardinia) and the “redemption” of the land, International Review of Social History (2019)

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