La prossima rivoluzione biotecnologica dell’agricoltura si baserà sulla manipolazione e l’ottimizzazione dei processi fotosintetici delle piante e delle alghe. Questa strada migliorerà la produttività dei campi e avrà un forte impatto ecologico e ambientale.

Il processo umano di domesticazione delle piante iniziato con la rivoluzione agricola neolitica e proseguito fino alla cosiddetta rivoluzione verde del secolo scorso ha agito su caratteri visibili, quindi direttamente selezionabili. Tra questi: l’architettura delle piante, la resistenza ai patogeni, la dimensione dei frutti o la resa in granella.

Tradizionalmente il progressivo miglioramento delle specie sfrutta la variabilità genetica naturale e la ricombinazione casuale dei geni in nuovi assortimenti che producono caratteristiche desiderabili. Questi interventi hanno creato le varietà vegetali moderne che oggi coltiviamo e consumiamo.

Nonostante la fotosintesi sia il processo metabolico da cui dipende la crescita delle piante e sostiene di fatto la vita sulla Terra, la rivoluzione verde ha ignorato la possibilità di migliorarne l’efficienza. Le ragioni di questa “distrazione” sono molteplici.

In primis, le reazioni fotosintetiche che convertono l’energia luminosa in carboidrati avvengono in tempi molto rapidi, che variano dai femtosecondi al secondo, e non sono quindi direttamente osservabili se non con strumenti sofisticati. Inoltre, le strutture funzionali che catalizzano questi processi all’interno delle foglie sono di natura molecolare e invisibili a occhio nudo.

Un ulteriore fattore di natura ideologica è legato alla concezione radicata nella comunità scientifica agronomica secondo la quale la fotosintesi sia un meccanismo funzionalmente perfetto e dunque non migliorabile. Nulla di più sbagliato.

In effetti, in laboratorio l’efficienza della fotosintesi è alta mentre cala drasticamente in natura poiché risente delle costanti variazioni ambientali. Idealmente, quindi, servirebbero apparati fotosintetici diversi, codificati da geni distinti, per affrontare ogni condizione ambientale.

Oggi sappiamo che la grande diversità ecologica degli apparati fotosintetici deriva proprio dall’espansione della famiglia genica delle proteine “antenna”. Le antenne fanno parte dei fotosistemi – i complessi macchinari molecolari che trasformano l’energia luminosa in energia chimica – dove assorbono i fotoni attraverso le molecole di clorofilla e di carotenoidi a esse legate.

I processi di selezione naturale hanno infatti agito favorendo l’evoluzione di apparati fotosintetici diversificati e specializzati, fornendo alle piante la flessibilità e la resilienza necessarie a sfruttare al meglio la luce disponibile nei vari habitat. Dunque, i geni delle proteine “antenna” rappresentano un patrimonio di variabilità genetica sfruttabile, mediante la biotecnologia, per assemblare razionalmente apparati fotosintetici basati su criteri funzionali, legati preferenzialmente alla produttività.

Inoltre, secondo una logica di competizione tra specie, l’evoluzione ha dotato le piante di un grande surplus di clorofilla nelle foglie per ombreggiare le altre piante che cercano di crescere nello stesso luogo. Le piante, quindi, assorbono più energia di quanta ne possano usare produttivamente e, poiché tale eccesso è potenzialmente distruttivo per gli apparati fotosintetici, una gran parte viene dissipata in calore. Questo è uno dei principali fattori che limitano l’efficienza di conversione fotosintetica della luce in biomassa nelle piante.

Nei campi, invece, le piante coltivate non devono competere e possono quindi assorbire unicamente la quantità di luce necessaria. Teoricamente è infatti possibile ridurre il numero complessivo di antenne nelle foglie permettendo alla pianta di assorbire solo l’energia utile nelle parti sovrastanti e lasciando sufficienti fotoni agli strati fogliari sottostanti.

Il progetto GrInSun (Green proteins as the interface between Sun energy and biosphere) finanziato dal fondo Advanced grant del Consiglio europeo della ricerca (Erc), mira a riconoscere la funzione di ciascuna delle proteine antenna in modo da comporre, con la biologia sintetica, fotosistemi specializzati per le diverse condizioni climatiche.

Lo sviluppo di varietà vegetali più produttive permetterebbe di ridurre la superficie di terre destinate all’agricoltura in favore delle foreste, la cui biodiversità è molto maggiore. Inoltre, fisiologi vegetali e meteorologi si sono uniti per mitigare il surriscaldamento dell’atmosfera attraverso l’ingegnerizzazione delle piante.

La loro proposta è relativamente semplice: le piante con un ridotto contenuto di clorofilla, quindi verde chiaro, assorbono meno energia e riscaldano meno l’aria. Inoltre, le loro foglie hanno un maggiore potere riflettente. Questo significa che una maggiore proporzione di luce incidente sulla vegetazione rimbalza verso lo spazio senza essere assorbita e produrre calore.

In conclusione, la conoscenza delle basi genetiche e molecolari che determinano il funzionamento della fotosintesi nelle piante sarà sfruttata per sviluppare varietà agricole più produttive e capaci di interferire positivamente negli equilibri energetici planetari.

Roberto Bassi è professore di fisiologia vegetale presso il dipartimento
di biotecnologie dell’Università di Verona.

Edoardo Andrea Cutolo è dottore di ricerca in fisiologia vegetale presso il dipartimento di biotecnologie dell’Università di Verona.

R. Bassi, L. Dall’Osto, Dissipation of light energy absorbed in excess: The molecular mechanisms, Annual Review of Plant Biology (2021)

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