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Una storia d’immigrazione americana

Elizabeth e Friedrich Trump, nonni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
(Bonnie Jo Mount, The Washington Post via Getty Images)

Nel 1905 un suddito disperato scrisse una lettera al suo re implorando misericordia. L’uomo, un tedesco di 36 anni, era emigrato da solo a sedici anni, dalla Germania negli Stati Uniti. Tornato a casa in Baviera, aveva scoperto che gli era stata tolta la cittadinanza del regno per aver evitato il servizio militare obbligatorio. Così, in un giorno di luglio di inizio secolo, non gli restava che fare appello alla generosità di Luitpold Wittelsbach, principe reggente di Baviera, sapendo che dalla risposta sarebbe dipeso il destino suo e dei suoi familiari, anche quelli non ancora nati.

La lettera cominciava così: “Al più sereno e al più potente dei principi! Al più generoso dei signori”. Poi l’uomo raccontava la sua storia:

Sono nato a Kallstadt nel marzo del 1869. I miei genitori erano coltivatori di vigne, gente onesta, semplice e devota. Mi hanno insegnato a essere diligente e fedele, a frequentare la scuola e la chiesa e a ubbidire alle autorità. Dopo la cresima, nel 1882, ho fatto apprendistato da barbiere. Tre anni dopo sono emigrato negli Stati Uniti, dove ho portato avanti la mia impresa con impegno e discrezione. Con la benedizione di Dio sono diventato ricco. Nel 1892 ho ottenuto la cittadinanza americana. Nel 1902 ho conosciuto la mia attuale moglie. Purtroppo lei non poteva tollerare il clima di New York, così sono tornato con tutta la famiglia a Kallstadt. Eravamo felici, ma poi ci è stato ordinato di lasciare il regno di Baviera. Siamo rimasti paralizzati dal terrore. Mia moglie è sopraffatta dall’ansia, e la mia amata bambina si è ammalata.

Poi la richiesta e la supplica:

Perché dovremmo essere espulsi? Cosa penserebbero i nostri concittadini se delle persone oneste dovessero fronteggiare una decisione simile? Vorrei diventare di nuovo un cittadino della Baviera. Non ho altra scelta che appellarmi al nostro adorato, nobile, saggio e giusto signore, che ha già asciugato così tante lacrime.

Infine gli ossequiosi saluti: “Il vostro suddito più umile e obbediente. Friedrich Trump”.

La richiesta fu respinta e la famiglia tornò negli Stati Uniti, a New York. Appena tre mesi dopo, la moglie di Friedrich partorì il loro secondo figlio, Frederick (per tutti Fred), che avrebbe messo in piedi un piccolo impero costruendo case popolari a Brooklyn e nel Queens.

Fred ebbe cinque figli, tra cui due maschi che nella visione del capofamiglia avrebbero dovuto prendere le redini dell’azienda: Fred Jr, che, insofferente al dispotismo del padre e non avendo nessuna intenzione di fare l’immobiliarista, si allontanò dalla famiglia, diventò pilota d’aereo e morì nel 1981 per le conseguenze di un grave alcolismo; e Donald, che amava eseguire silenziosamente tutti gli ordini del padre e finì per considerare il dispotismo una qualità fondamentale per farsi strada nella vita. Donald è diventato miliardario costruendo grattacieli (o mettendoci il suo nome sopra) e a settant’anni è stato eletto 45° presidente degli Stati Uniti.

La lettera di Friedrich a Luitpold è un documento straordinario, non solo perché racconta la genesi della famiglia Trump, ma anche perché tra le righe rivela il racconto di quella che è stata – e che per molti versi è ancora oggi – l’emigrazione verso l’America.

Per prima cosa, il fatto che spesso tutto comincia con un minore non accompagnato. Friedrich Trump aveva sedici anni quando decise che non aveva nessuna intenzione di passare la vita a raccogliere uva. Una notte si svegliò mentre i genitori dormivano, scrisse un biglietto alla madre in cui spiegava che stava per partire per il nuovo mondo, percorse quasi seicento chilometri per raggiungere il porto di Brema, dove pagò l’equivalente di quindici euro di oggi per imbarcarsi sulla nave S.S. Eider. Durante il viaggio aveva diritto a un pranzo al giorno, non aveva accesso né ai bagni né all’acqua potabile.

La saga familiare dell’attuale presidente degli Stati Uniti comincia con un migrante economico

Quando dieci giorni dopo la nave arrivò a Castle Garden, il primo centro d’accoglienza per migranti di New York, la puzza che emanava era così forte che un imprenditore che aveva gli uffici in quella zona si lamentò pubblicamente per l’arrivo degli immigrati. Come molti bambini e adolescenti centroamericani che partono oggi verso gli Stati Uniti, Friedrich Trump arrivò senza sapere una parola d’inglese e poteva contare solo sull’appoggio di una sorella che era emigrata qualche anno prima.

Furbizia e sfruttamento
Ma, al contrario della maggior parte delle persone che cercano di raggiungere il paese oggi, non scappava da guerre, minacce di morte o carestie. Era mosso, semplicemente, dalla voglia di arricchirsi (a Kallstadt, il paesino della sua famiglia, il lavoro duro permetteva al massimo di avere un tetto sulla testa). La saga familiare dell’attuale presidente degli Stati Uniti, insomma, comincia con un migrante economico. Era così per la maggior parte di quelli che arrivavano. Chi emigrava sapeva di andare incontro ad anni – o anche a tutta una vita – di stenti e sofferenze, ma era confortato dalla consapevolezza che le porte erano aperte e le occasioni a portata di mano per chi fosse stato abbastanza sveglio da accorgersene.

Friedrich era quel tipo di persona. Nella lettera al principe di Baviera non fa menzione del modo in cui era riuscito a fare fortuna, e comprensibilmente oggi suo nipote preferisce non parlarne, ma la sua è una storia di furbizia che spesso sconfina nell’inganno, di operosità che diventa prevaricazione ai danni di persone arrivate nel paese molto prima di lui. Persone che molto probabilmente si lamentavano dei nuovi immigrati che stavano mandando il paese in rovina. Nel libro Donald Trump, David Cay Johnston racconta che poco dopo essere sbarcato a New York, Friedrich si trasferì sulla costa occidentale, a Seattle, dove aprì un ristorante con tanto di bordello sul retro pensato per accontentare la grande massa di persone che in quel periodo arrivava in cerca di fortuna.

Nel frattempo aveva usufruito delle permissive leggi americane per diventare a tutti gli effetti statunitense: “Ottenne la cittadinanza mentendo sulla sua età e sostenendo di essere sbarcato a New York due anni prima del suo arrivo. Fu accompagnato all’udienza da due amici che dovevano testimoniare sulla bontà della sua indole: il primo era un operaio, il secondo un uomo tra le cui occupazioni figurava quella di mediatore di un’attività definita ‘prestito femminile’” (le leggi, per la verità, non erano permissive per tutti: in quegli anni era in vigore il Chinese exclusion act, una misura razzista pensata per tenere fuori del paese i lavoratori cinesi).

“Una tradizione dei Trump in America alla quale ha dato inizio Friedrich è quella di arricchirsi senza essere mai sazi”, scrive Johnston. Che prosegue:

Dopo aver aperto il ristorante/bordello si dedicò a un nuovo affare, tremila miglia più a nord. Correvano voci che il petroliere Rockefeller avesse pianificato una massiccia attività di estrazione. In un appezzamento di terra di cui non era proprietario, proprio accanto alla stazione ferroviaria, Friedrich costruì una specie di hotel, di quelli che servono per soste brevi, non oltre la singola notte. Edificando su un terreno non suo, anticipò il modo in cui suo nipote Donald sarebbe entrato in possesso della reggia di Mar-a-Lago in Florida: con un mutuo che la Chase bank non registrò agli atti.

L’attività di estrazione della Rockefeller fu un fiasco, ma Friedrich fu uno dei pochi a non rimetterci. Poco dopo, sentendo i racconti sulla corsa all’oro, si trasferì nel territorio canadese dello Yukon.

Non gli interessava setacciare le gelide acque dei torrenti, puntava a setacciare le tasche dei cercatori d’oro. Aprì una sorta di bar tavola calda, chiamata The Artic, dove offriva agli avventori liquori forti e ‘ragazze sportive’ (così si chiamavano le prostitute). Ancora una volta, il suo tempismo fu impeccabile. Arrivò nel momento in cui la corsa all’oro era al suo apice. E quando l’oro si stava esaurendo e la polizia canadese stava per far chiudere la baracca, Friedrich aveva accumulato una piccola fortuna che portò con sé, dandosela a gambe negli Stati Uniti

Nel 1901 tornò in Germania, dove conobbe la futura moglie, Elizabeth, e da dove ripartì per l’America. Ma poco dopo le lamentele della moglie lo convinsero a tornare in Baviera, dove però era ormai uno straniero. A quel punto le porte degli Stati Uniti gli si schiusero davanti per la terza volta. A New York continuò a fare soldi trafficando in canali discutibili, mettendo insieme una fortuna che servì come trampolino per suo figlio Fred e, in fin dei conti, per i suoi nipoti.

Nessuno ha mai chiesto a Donald Trump se sente un legame tra la storia della sua famiglia e le sue politiche sull’immigrazione, tra cui l’espulsione di undici milioni di immigrati senza visto, l’incriminazione di tutte le persone che entrano senza permesso di soggiorno nel paese e la separazione dei minori dai loro genitori.

Di sicuro con le politiche in vigore oggi negli Stati Uniti, suo nonno Friedrich non avrebbe avuto molte possibilità di farsi una vita e garantire un futuro ai suoi figli. La prima volta, a sedici anni, sarebbe stato fermato dalla polizia di frontiera e probabilmente mandato in un centro per minori non accompagnati in attesa di essere rimpatriato, a meno che la sorella non avesse accettato di prendersi cura di lui. Anche se fosse rimasto nel paese, avrebbe avuto molte difficoltà a ottenere la cittadinanza americana: sarebbe stato uno dei milioni di immigrati senza documenti che tirano a campare cercando di non dare troppo nell’occhio. Di sicuro non sarebbe diventato ricco. Avrebbe rischiato di essere arrestato ed espulso, rimandato in un paese che negava la sua esistenza.

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