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Ingres e il feticcio dell’Antico

La grande odalisca (versione in chiaroscuro), 1830 circa. (Jean-Auguste-Dominique Ingres, Per gentile concessione di The Metropolitan museum of art/Catharine Lorillard Wolfe collection/Wolfe fund)

Il ritratto di Napoleone sul trono imperiale (1806) è il pezzo centrale della mostra di Jean-Auguste-Dominique Ingres allestita fino al 23 giugno al palazzo Reale di Milano. Il quadro fu dipinto nel 1806 e pur nella sua ufficialità è un esempio di come l’arte che chiamiamo neoclassica non fosse quella fredda e dogmatica ricerca di una non meglio definita purezza dell’Antico.

Il pittore raffigura l’imperatore secondo l’iconografia più arcaica: frontale, sul trono, circondato da tutti i simboli del potere. Il Bonaparte di Ingres è rigido come un’icona bizantina. Il virtuosismo con cui l’artista tratta i dettagli (l’ermellino dipinto pelo per pelo, le pieghe del velluto rosso, l’opalescenza dei globi d’avorio sul trono, i ricami finissimi sulla pantofola e l’assurda aquila trompe-l’œil sul tappeto) non fa che rendere ancora più inquietante la testa dell’imperatore che, sproporzionata rispetto al resto del corpo appesantito di ornamenti e di insegne, presenta anche un colorito pallido e malsano. L’unico dettaglio anatomico nudo, visto che anche le mani dell’imperatore sono coperte da spessi guanti ricamati, è una testa inespressiva quasi da bambolotto di cera. Inutile dire che a Napoleone il quadro non piacque.

Eppure Ingres aveva profuso in quel lavoro tutte le sue doti di ritrattista e di disegnatore. La mostra milanese ci propone, tutto intorno al ritratto, una serie di disegni preparatori che mostrano la maniacalità e il feticismo con cui Ingres ha studiato il suo soggetto. Ci sono studi di bassorilievi bizantini, dettagli di come il pesante abito di velluto cadesse all’altezza delle caviglie e maniacali schizzi delle decorazioni dello scettro. Ingres era un disegnatore di abilità sovrumana. Pur essendo un virtuoso del colore dava al disegno una centralità assoluta e gli studi in mostra, le matite e le chine, sono la chiave per capire appieno la sua modernità. Il disegno di Ingres sgorga talmente sicuro e preciso che sembra scrittura: “La verità è solo nel disegno”, amava ripetere. Ingres aveva un’idolatria per Raffaello, il pittore-disegnatore per eccellenza del Rinascimento, e si sentiva quasi posseduto dal suo spirito.

A sinistra: Napoleone sul trono imperiale, 1806. A destra: Il sogno di Ossian, 1813.

La mostra milanese si propone, partendo da Ingres, di allargare lo sguardo sulla categoria un po’ angusta del neoclassicismo del primo ottocento e di apprezzarne le sfumature meno note e più protoromantiche. Parallelamente si propone anche di raccontare la centralità della Milano napoleonica, “seconda capitale” dell’impero. Vediamo il neoclassicismo propagandistico di Andrea Appiani e Antonio Canova, in cui Napoleone compare come un nuovo Cesare in trionfo. C’è il collezionismo illuminato e appassionato di Giovanni Battista Sommariva, a cui è dedicata un’intera sala: l’influente uomo politico della Repubblica visalpina trasformò villa Carlotta, sul lago di Como, in un museo del neoclassicismo facendo da tramite tra modernità francese e classicismo antiquario italiano.

La mostra ci propone anche opere di tanti contemporanei di Ingres che, meno rigorosi di lui, piegavano il gusto neoclassico a mode culturali che già sapevano di romanticismo maturo e, in certi casi, anticipavano l’orientalismo e l’erotismo soft dello stile pompier del secondo impero: lo svenevole Endimione di Girodet, già nel 1791, precorre certi pruriti erotico-borghesi da salon parigino di metà ottocento.

Il tratto di Ingres, con la “verità” del suo disegno, attraversa tutte le sfumature dell’epoca complessa in cui viveva

La traccia più facile da seguire per districarsi tra i tanti spunti offerti dalla mostra è quella del tratto di Ingres che con la “verità” del suo disegno attraversa tutte le sfumature dell’epoca complessa in cui viveva. La linea del disegno di Ingres è l’unica che ci permette davvero di unire tutti i puntini, come nel giochino enigmistico. Quella che Ingres chiamava “verità” della linea era in realtà una verità interiore, non oggettiva come lui forse credeva, da bravo classicista. E osservando i tanti (ma sempre troppo pochi) disegni in mostra si scopre la vera vena preromantica e moderna del maestro di Montauban.

Vedere da vicino la meravigliosa versione a grisaille della Grande odalisca, conservata al Metropolitan di New York, ci permette di notarne l’ingegnosità del disegno con più facilità rispetto all’originale del 1814 conservato al Louvre. Ingres è già un pittore moderno, in qualche senso è già un cubista e un surrealista quando decide di smontare e rimontare a suo piacere l’anatomia della modella. Il nudo della Grande odalisca, che in testa ha un turbante molto simile a quello della fornarina di Raffaello, è tanto sensuale quanto innaturale: la sua colonna vertebrale impossibile si torce in modo da offrirci contemporaneamente il viso, sonnolento e assente, un seno che sfida qualunque forza di gravità, entrambe le natiche ed entrambe le piante dei piedi. La Grande odalisca è una specie di cyborg in grado di mostrare, con una torsione impossibile in natura, tutte le zone del corpo femminile che probabilmente Ingres adorava in maniera feticistica: seno, natiche e piedi. Se le Demoiselles d’Avignon o i grandi nudi surrealisti del Picasso anni venti hanno una nonna, quella non può essere che la Grande odalisca di Ingres.

Dall’infinitamente grande del ritratto imperiale di Napoleone la mostra a palazzo Reale ci permette di arrivare anche all’infinitamente piccolo di uno studio per l’ombelico della Venere anadiomene su cui Ingres lavorò tra il 1808 e il 1848. Il disegno è su un foglietto di cinque centimetri per sei ed è un lavoro quasi astratto, un segno, un geroglifico. E quell’ombelico, disegnato con allucinata precisione, è il punto di fuga di un nudo che, come notò Charles Baudelaire quando vide il quadro all’Esposizione universale del 1855, univa una testa e un collo neoclassici, mani e braccia raffaellesche a un corpo da statuaria medievale francese. La Venere anadiomene, come tante altre opere di Ingres, era un Frankenstein immaginato dalla mente di uno straordinario disegnatore nato subito prima della rivoluzione francese e morto tre anni prima della Comune di Parigi. Un artista neoclassico ma già profeta di una scaltrezza nel trattare i modelli del passato con cui stiamo ancora facendo i conti oggi, a più di centocinquant’anni dalla sua morte.

Il Musée Ingres di Montauban, vicino a Tolosa, raccoglie la più grande collezione di disegni del pittore francese ed è chiuso per lavori dal 2017. Riaprirà al pubblico a fine 2019.

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