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La discriminazione raccontata al festival di Cannes

La regista Alice Rohrwacher, a sinistra, con il cast del film Lazzaro felice, a Cannes, il 14 maggio 2018. (Anne-Christine Poujoulat, Afp)

Nel fine settimana il concorso si è infiammato con molti titoli di grande qualità, da Le livre d’image di Godard a Se rokh (Tre volti) dell’iraniano Jafar Panahi. Ma qui ci soffermiamo su tre importanti pellicole che mettono al centro le minoranze: donne, immigrati e neri. Il poetico e originalissimo Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, il noir sontuoso del regista cinese Jia Zhang-ke, Ash is purest white, e l’avvincente BlacKkKlansman, su un’inchiesta di polizia sul Ku klux klan degli anni settanta, che Spike Lee mette in relazione con l’America di Trump.

Dopo il bel successo di Le meraviglie, presentato sempre a Cannes nel 2014, il terzo lungometraggio di Alice Rohrwacher è quasi la promessa di una nuova alba per il cinema d’autore italiano. Lazzaro felice (in uscita nelle sale il 31 maggio) è la storia in due parti di due comunità, insieme eguali e contrarie, in teoria ambientate in momenti diversi della storia, anche se il film rimane chiaramente atemporale: nella prima parte del film lo è in maniera evidente, nella seconda, esplicitamente ambientata ai giorni nostri, lo è con modalità più sottili.


Si potrà pensare alla fiaba, ma sembra più giusto definirlo come un racconto simbolico, quasi da arte primitiva, con una rivestitura delicata a metà tra fiaba e parabola. L’approccio visivo è scarno, essenziale, immerso nella naturalezza delle rocce, dei sassi, dell’erba, della luce del sole che rimanda chiaramente a Pasolini, ma senza scimmiottare penosamente, senza pesantezza, e con una leggerezza aerea.

Una comunità rurale sospesa nel tempo vive tra le montagne come se fossimo ancora ai tempi della servitù della gleba o giù di lì, quando di fatto i contadini erano proprietà dei nobili, lavoravano duramente tutto il giorno, le loro grandi famiglie erano ammassate in casolari, i ragazzi non andavano a scuola ed erano privati di ogni possibilità di cambiamento, di ogni futuro. Ma c’è una forma di felicità, o di non consapevolezza, che attutisce il tutto.

Al centro del film c’è uno straordinario personaggio: un pastorello adolescente, (s)perduto e felice, pierrot senza trucco (pasoliniano appunto) e piccolo santo. Un’icona di purezza che attraversa tutto, capace di salti spaziotemporali. Anche la cattiveria umana lo trapassa, ma lui, Lazzaro, si rialza felice. Almeno per un certo tempo. Non vogliamo svelare troppo anche perché ci sarà presto modo di tornare sul film. Ma tra la prima parte, estiva, e la seconda, invernale e piovosa, ci sono due comunità che sono la stessa, interscambiabili, una che aveva una forma d’illusione e un’altra che le ha perse tutte, ma che rimane sempre marginale, come una predestinazione nel tempo, o attraverso i tempi.

Per rappresentare la cattiveria gretta, quasi feroce, di cui siamo intrisi dopo più di vent’anni di veleni razzisti lanciati impunemente da gran parte della classe politica, di dati falsi su migranti e rifugiati propugnati dai politici e da molti mezzi d’informazione, al film basta una sequenza, una sequenza simbolica che arriva come una frustata, e che rivela tutta la nefandezza di questa cattiveria, tutta la sua pericolosità. Perché le due comunità interscambiabili sono anche i migranti. E i migranti siamo noi (lo siamo stati, forse lo saremo ancora).

Nelle gole cinesi
Realistico, noir, poetico e, a tratti, sottilmente fiabesco e fantastico-surreale è Ash is purest white il nuovo film del maestro cinese Jia Zhang-ke, tra i pochissimi registi viventi che si sono affermati negli ultimi vent’anni che possa competere con i grandi del passato del cinema d’autore.

Ash is purest white è un grande film. Più che al suo ultimo titolo, Al di là delle montagne (presentato in concorso a Cannes nel 2015), il cineasta qui rimanda a Il tocco del peccato (premio per la miglior regia nel 2013 al festival di Cannes): per il discorso sociale, per il fatto di essere anche un film di sceneggiatura, ma anche per il richiamo a una violenza parossistica e stilizzata che ricorda quella di Tarantino e il cinema di genere che mette al centro la malavita, come avviene appunto in Ash is purest white, anche se sempre rivisitato dallo stile particolarissimo del regista cinese. Ma in realtà, il film è prima di tutto un ritorno al suo capolavoro: Still life, Leone d’oro al festival di Venezia nel 2006 e notevole successo commerciale in alcuni paesi europei.


Tornando negli stessi luoghi a poco più di dieci anni di distanza, Jia Zhang-ke sorprende e, a tratti, commuove. Come sempre documenta il presente nella fiction e fa riflettere nel profondo. È la storia di una donna, figlia di un onesto operaio (il regista ha molti parenti operai con i quali ha un forte legame), che si fidanza con un gangster della mala nascente. Il film segue sempre il punto di vista della donna, interpretata da Zhao Tao, attrice feticcio di Jia Zhang-ke. Le vicissitudini che colpiranno la coppia negli anni li porteranno a essere continuamente fuori sincrono rispetto ai loro desideri, aspettative, necessità. Non c’è dubbio che, moralmente, vince la donna in questo mondo sempre più irriconoscibile, sempre più alieno. Non per nulla si parla di apparizioni aliene e di ufo nei vari incontri fortuiti durante i suoi continui spostamenti.

In Still life Jia Zhang-ke aveva filmato in tempo reale i cambiamenti dovuti alla costruzione della gigantesca diga nella regione delle Tre gole, che pian piano sommerge una gran quantità di abitazioni e con esse tradizioni, modi di vivere empatici e umani tra operai, contadini, gente umile. Un mondo antico veniva distrutto e con esso un senso unico della comunità che si era stratificato. In mezzo a tutto questo, il suo stile documentaristico e creativo insieme filmava il caos di palazzi diroccati o in costruzione, con una sensibilità da video artista o da artista di installazioni, conferendo una dimensione poetica e quasi straniante al tutto, mentre nel cielo facevano capolino, quasi segretamente, degli ufo.

Poco più di dieci anni dopo è tutto finito. L’antica zona delle Tre gole di oggi è un mondo finto, un simulacro postmoderno levigato quanto alienante, “una grande prigione” come viene detto nel film. Un simulacro come il parco d’attrazioni di The world (2004, presentato in concorso a Venezia), dove sono riprodotti in miniatura tutti i più importanti monumenti del mondo (dalle piramidi alla torre Eiffel, passando per il Colosseo) mentre i suoi dipendenti lottano per trovare negli interstizi delle loro tristi esistenze qualcosa che abbia la parvenza della felicità. La diagnosi del regista continua a essere implacabile, di una precisione chirurgica, eppure sempre intrisa di umanità e lontana da ogni cinismo.

L’America a fuoco
Notevole il nuovo film di Spike Lee, BlacKkKlansman, tra i migliori della sua carriera anche se non arriva ai livelli di capolavori come La 25ª ora. Il titolo, ironico, dice molto. Presumibilmente ambientato al momento della campagna elettorale di rielezione di Nixon, è ispirato a fatti reali. Racconta di un’inchiesta doppia e parallela d’infiltrazione della polizia del Colorado nel Ku klux klan locale e nelle Pantere nere, quest’ultime profondamente criminalizzate dall’Fbi di Edgar Hoover e dall’amministrazione Nixon.


Al centro dell’indagine ci sono due agenti, uno nero (John David Washington) e uno ebreo (Adam Driver), straordinariamente affiatati. La direzione degli attori si rivela superlativa, in osmosi e sincronia con il ritmo del film. Il clima dell’epoca è restituito pienamente ed è particolarmente bella tutta la parte con gli interventi del tribuno delle Pantere, Stokely Carmichael, che aveva ormai cambiato il nome in Kwame Ture. Ben presto la polizia si convince che i violenti, straripanti di odio, sono i membri del Ku klux klan guidati da David Duke, la vera forza eversiva dei valori su cui sono fondati gli Stati Uniti.

Lee irride, diverte, agghiaccia, avvince, a tratti si arruffiana il pubblico afroamericano. Ma realizza un film coraggioso, tra i più politici della sua carriera, come quando mette in bocca a Duke le frasi di Trump sull’America di nuovo grande e in chiusura inserisce le terribili immagini degli incidenti dell’estate scorsa a Charleston, con l’automobile che va avanti e indietro nella folla, alternandole alle dichiarazioni di Trump, che minimizza la portata degli scontri e le simpatie neonaziste dei partecipanti alle manifestazioni. Il messaggio è chiaro. Le parole uccidono e feriscono quanto la spada, anzi la croce di fuoco. Soprattutto se a pronunciarle è il comandante in capo della più vecchia democrazia al mondo.

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