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Tre volti è un film implacabile nella richiesta di libertà

Tre volti

Il film si apre con un’inquadratura dal formato molto ristretto e verticale. Quasi come una singola vignetta di fumetto isolata dal resto e circondata dal nero. Una ragazza si confessa parlando a una videocamera mentre cammina in uno stretto tunnel all’interno di una parete rocciosa. Chiede a un’attrice molto popolare di venire da lei e parlare con la sua famiglia. Si sente ingannata da tutti, prima di tutto dai suoi stessi familiari e dal suo sposo, che le avevano fatto credere che in seguito avrebbe potuto fare l’attrice, mestiere che sogna di svolgere avendo studiato con impegno per anni all’accademia di Teheran dove ha ottenuto i migliori voti.

Rimprovera all’attrice in questione di non aver mai risposto ai suoi messaggi, alle sue accorate richieste di aiuto. Infine chiede perdono. Si avvicina a un cappio che pende da un ramo d’albero incastrato nella roccia e lo infila al collo. La videocamera gira su se stessa e finisce a terra, priva di vita. La sua negazione – la morte – va fuoricampo.

Subito dopo segue un’inquadratura a tutto schermo sul volto plumbeo, livido, di una donna: la penombra, l’oscurità nella quale è avvolta – il buio all’esterno dell’automobile in cui viaggia, l’abbigliamento nero – le conferisce quella gravità che ineluttabilmente segue alla visione del video. Quel tipo di visione che spesso preferiamo scansare. Poco dopo l’auto si ferma nella notte, lungo la strada, per una pausa. Un lento movimento di camera all’interno dell’auto ne rivela, sorprendendo lo spettatore, l’ampiezza, un certo lusso, il biancore dei suoi materiali, invece del predominio del nero o dei colori scuri come avremmo potuto credere. Una spazialità però apparente: potrebbe essere quasi un obitorio, una camera mortuaria, una lussuosa auto funebre. Immagini con le sembianze di loculi funerari saranno ricorrenti nel film.

Una speranza da conquistare
Il lettore non creda però di trovarsi di fronte a un film plumbeo, stretto e severo come quest’inizio. Al contrario. Si troverà davanti a un film arioso, pieno di spazi e di luce, empatico e sobrio insieme, ricco di tipologie umane popolari diversificate, non di rado calorose. Un film di speranza non retorico pur essendo implacabile nel denunciare l’assenza di libertà in Iran, in particolare per le donne. Questo è Tre volti dell’iraniano Jafar Panahi presentato in concorso al festival di Cannes dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura.

Va sottolineato che da fine settembre stanno arrivando tanti dei film più belli dell’ultima edizione del festival di Cannes, perlopiù del concorso, Blackkklansman di Spike Lee, L’uomo che uccise Don Chisciotte di Terry Gilliam, L’albero dei frutti selvatici del turco Nuri Bilge Ceylan, Girl di Lukas Dhont, In guerra di Stéphane Brizé, Summer di Kirill Serebrennikov e ora uno dei capolavori visti al festival, Tre volti di Jafar Panahi. Tutti film che consigliamo di recuperare qualora fossero sfuggiti. Tutte opere libere, umane e in qualche modo di speranza, comprese le più dure, come In guerra e, appunto, Tre volti.


Spesso in patria i titoli di Panahi sono ancora censurati, anche se la sua pesante condanna (fu arrestato nel 2010 insieme alla moglie e alla figlia) si è via via allentata, a dimostrazione dell’utilità di certe pressioni che nascono dopo la presentazione di questi film in festival importanti e l’esposizione giornalistica che ne consegue. Lo dimostra anche il caso del grande regista cinese Jia Zhang-ke, che ha presentato a sua volta il nuovo lungometraggio in concorso a Cannes, e che non subisce più censura in patria. Come dimostra ancora il fatto che con Tre volti il regista iraniano abbia fatto tornare i titoli di coda, assenti nel precedente Taxi Teheran, rivelandone l’ampia équipe.

Panahi ha fatto della sua detenzione e del divieto di girare film il tema del suo cinema, facendoli coincidere con una riflessione – sotto forma di metafora – su temi come il vero, il falso e il cinema stesso, accompagnando il tutto da una certa leggerezza, bonomia e amore per la vita. This is not a film (Questo non è un film, Fuori concorso a Cannes nel 2011) lo ha filmato chiuso in casa, Taxi Teheran (Orso d’oro a Berlino nel 2015) lo ha girato chiuso nel taxi di cui era autista, Tre volti lo ha girato invece guidando in giro per l’Iran, e nel film lo vediamo scendere dall’auto e, pur non percorrendo molti metri, camminare comunque tranquillo tra gli abitanti dei villaggi dove si è recato.

Ed è una ragazza di una remota zona rurale ad aver comunicato con un video a una nota attrice il suo suicidio mediante impiccagione. Il video provoca l’immediata reazione dell’attrice che, profondamente angosciata, lascia all’improvviso il set del film e si unisce a Panahi nella ricerca della ragazza, sperando in un’altra verità. Le donne e la loro condizione sono state spesso al centro della cinematografia di Panahi, autore lanciato da Abbas Kiarostami nel lontano 1995 con Il palloncino bianco, di cui firmò la sceneggiatura oltre ad aiutarne la produzione. Lavori come Il cerchio (Leone d’oro a Venezia nel 2000), oppure Offside (Orso d’argento a Berlino nel 2006) dimostrano la coerenza, la costanza e il coraggio di Panahi nell’affrontare il tema della condizione femminile nel suo paese. Il dominio maschile, la sua brutalità, pur avendo sempre tragiche conseguenze, trova però qui delle aperture, oltre a rivelarsi a tratti anche un po’ grottesco grazie a un filo di sottile ironia che percorre il film.

Lungo le tortuose e strette strade di montagna la coppia fa curiosi incontri che pian piano stemperano la tensione e colorano il film

Il viaggio lungo strade di montagna ci consentirà di coglierlo gradualmente. Perché all’inizio l’angoscia è tanta. Nell’elaborare varie ipotesi Panahi, e soprattutto l’attrice Behnaz Jafari che interpreta se stessa (come più o meno tutti gli attori che portano gli stessi nomi dei personaggi), si chiedono se andando al cimitero troveranno il corpo, se la famiglia abbia insabbiato tutto per salvare la reputazione.

Senza contare che le autorità hanno tendenza a rimuovere, a cancellare le ombre sul buon funzionamento della società. A fare diventare doppiamente ombre delle vite che non sono più, destinate per due volte all’oblio.

Ma i social network, il cui utilizzo è letteralmente esploso in Iran, rappresentano proprio l’opposto, una volontà quasi in eccesso di ricerca di un contatto al di fuori dalle convenzioni sociali che allarghi e forse cambi radicalmente la vita delle persone.

Le figure del mondo del cinema ricevono messaggi del genere. E Tre volti parte da un messaggio che Panahi ha ricevuto su Instagram e dalla contemporanea notizia sui giornali di una ragazza che si era suicidata perché le avevano proibito di recitare nel cinema.

Lungo le tortuose e strette strade di montagna la coppia fa curiosi incontri che pian piano stemperano la tensione e colorano il film. Un anziano montanaro che cammina con la moglie e una bambina compirà strani giochi di comunicazione con il clacson – una sequenza con cui apprendiamo come in certe zone dell’Iran il turco sia più usato del persiano –, più avanti un intero gruppo di contadini canta, suona e balla sul bordo di una curva. Un altro vecchio al quale più tardi chiedono un’indicazione per il villaggio o per il cimitero risponderà con bonarietà che tutto è sofferenza nella vita e che, rivolgendosi all’attrice, “il problema siamo io e lei”. Dietro all’anziano s’intravede una fervida attività all’interno della comunità. “Lì stava succedendo qualcosa, ma non puzzava di morte”, è il commento di Panahi mentre riparte. Nessuno fornisce però risposte concrete, precise, tutti divagano.

Un clima difficile
Trovato il cimitero, parlano con una donna anziana sdraiata in una fossa scavata da lei stessa. Cordiale, la chiama la sua “ultima dimora”, il “mio luogo di riposo”. Nulla di cupo. Il cimitero è fotografato in una splendida luce diurna, luminosa, il film diventa sempre più aereo, fatto di campi lunghi su paesaggi e luoghi, di movimenti di camera fluidi e leggeri, di una cinepresa molto mobile ma senza esagerazioni. Anche quando nella seconda parte arrivano le (non troppo numerose) inquadrature a camera fissa, il regista riesce a creare atmosfere d’incanto, poetiche, sospese.

Questo non impedisce che mentre parlano con la madre o gli abitanti del villaggio, si percepisca un clima difficile, anche pesante. Il padre è andato in cerca della ragazza, il fratello urla. Hanno il terrore che diventi un’“intrattenitrice”, come dicono. I genitori delle altre ragazzine vietavano di frequentarla per paura che diventassero come lei, dice la madre. Hanno il terrore della solitudine, della malattia. Chi coltiva i campi se si ammalano, chi li cura?

Soprattutto, per loro “intrattenitrice” è insieme il simbolo di un fallimento personale e di quello che avveniva prima della rivoluzione, un’epoca di presunta dissolutezza. Era “intrattenitrice” Shahrzad, attrice, cantante e danzatrice bandita dopo la rivoluzione, ma ancora oggi notissima tra le generazioni più giovani. Perché Shahrzad (all’anagrafe Kobra Saeedi), che nel film vive in una casetta ai margini del villaggio, esiste davvero ed è un’artista, poeta e pittrice. Proprio nel filmare con la camera fissa dalla strada la casetta di Shahrzad abbiamo uno di questi momenti magici, mentre Behnaz Jafari va a parlare con lei lasciando Panahi nell’auto e con lentezza avanza il crepuscolo e infine il buio.

Quando Jafari torna all’auto stiamo ascoltando fuori campo una bellissima voce, una poesia che dice: “Io non dissi presente. In questo caso si è assenti”. Avendo dato l’autorizzazione all’uso del suo nome nel film, quella che sentiamo è una vera poesia di Shahrzad e la sua vera voce.

Il volto dell’assenza
Eccolo il terzo volto, dei tre che danno il titolo al film. Quello assente, quello forse per sempre avvolto o coperto dall’oscurità, e da un oblio inesorabile al quale il film si ribella. I tre volti sono quelli di tre generazioni, i tre momenti della vita, ma anche i tre momenti salienti della storia del cinema iraniano, indubbiamente uno dei temi del film.

Quello della giovinezza, rappresentato dalla giovane aspirante attrice, Marziyeh Rezaei (attrice non professionista) scelta con una modalità prettamente neorealistica, quel neorealismo di cui è impregnata la filmografia di Panahi come del resto tanto cinema iraniano. Quello della maturità, rappresentato da Behnaz Jafari, importante interprete anche di serie tv e che abbiamo in Lavagne di Samira Makhmalbaf (2000). Infine quello della vecchiaia, rappresentato dall’incantatrice, più che intrattenitrice, Shahrzad, di cui il film testimonia la presenza facendone sentire l’assenza. Mettendola fuori campo per darle più risalto.

Il fuori campo è un procedimento importante nel cinema di Panahi e nel cinema iraniano. Una cinematografia in cui i film sul cinema sono sempre messi in relazione alla società. Come per esempio in un importante opera di Abbas Kiarostami, Close-up (1990), in cui un giovane disoccupato della capitale finiva sotto processo per essersi finto il regista Moshen Makhmalbaf. E si pensa a Close-up in questo film fatto di inganni e sincerità cristallina, di messe in scena che sono invece un urlo per una verità di vita che sostituisca le messe in scena delle convenzioni sociali.

Ossessioni fondamentali
Il film non giudica, ma pone la questione. Vede anche gli esseri umani, il loro calore, il contesto in cui sono nati e vivono, tanto più che i tre villaggi dove il film è girato (situati nel nordovest del paese, nella regione azera dell’Iran) sono quelli dove sono cresciuti la madre, il padre e i nonni del regista. Nondimeno pone la questione mostrando l’incudine che pesa sulle donne, che bisbigliano le loro verità nella notte a Panahi e Jafari. Perché l’onore è fondamentale, come è fondamentale il machismo, la virilità. Fondamentali in maniera quasi ossessiva.

Lo dimostrano le scene con un poster di un celebre divo del cinema iraniano del passato – così importante ancora oggi e di cui Panahi, anche qui, cerca di far sentire la presenza con l’assenza –, l’attore Behruz Vossoughi esiliato negli Stati Uniti dopo la rivoluzione. O la sequenza con un toro che sarebbe capace di ingravidare in una notte una dozzina di vacche ma che a causa di una caduta blocca la strada, quella strada stretta che non si decidono ad allargare cambiandone invece continuamente le regole di circolazione, così come cambiano di continuo le regole per il percorso delle donne nella strada della vita, per loro già così stretta. Scene di questo tipo, che costellano il film, sono altrettante metafore dietro l’apparente prosaicità, quasi da documentario, delle situazioni filmate. Panahi non giudica. In compenso mostra tutto.

Lo sguardo del regista, umano e morale, distante anche se mai freddo, da osservatore attento, trova nell’incredibile e raffinato finale tutta la sua sintesi. Un finale anche questo metaforico (all’ennesima potenza) e prosaico insieme, un finale che è come il resto del film. Alle donne bisogna restituire parole e volti, alle donne bisogna dare il futuro restituendo il presente e almeno una porzione del passato. Devono averne la possibilità anche nell’Iran degli ayatollah. Questo sembra essere il potente messaggio. A partire da quel momento è tutta una questione di donne e si resta fuori campo. Come Panahi nel finale. Ecco il perché di un inizio che pare una fine mentre forse è davvero un nuovo inizio.

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