24 novembre 2018 13:41

Una lenta carrellata in avanti dal basso in alto perlustra l’ambiente, le molte e contraddittorie linee architettoniche che s’intersecano tra loro, quelle di grandi palazzi in mattone e scale antincendio in ferro. La fotografia, in bianco e nero, è estremamente definita, tutto è come in rilievo. Un suono di chitarra elettrica cresce lentamente. Non siamo nella New York o Londra fine anni settanta, ma nella Leningrado – tornata poi a chiamarsi San Pietroburgo – dei primi anni anni ottanta.

Poco più tardi la camera, passando da dietro le quinte di un palco con una nuova carrellata, avanza da dietro le spalle di un gruppo di musicisti rock che si stanno esibendo, per scendere tra il pubblico. Se il gruppo suona una musica che per sonorità e testi è prossima a quella che in quegli anni si suona in occidente, dove sta finendo il punk e cominciando la new wave, il pubblico di ragazze e ragazzi è estremamente composto e ordinato anche nel vestiario, come se stessero assistendo a una recita scolastica o a un qualsiasi spettacolo classico approvato dall’allora regime comunista dell’Unione Sovietica. Non sorprende, la sala è piena di funzionari governativi.

Arriva in sala uno dei film più belli del concorso dell’ultimo festival di Cannes, Summer (Leto) del cineasta russo Kirill Serebrennikov, che non ha potuto andare al festival nello stupore e nell’indignazione internazionale perché era agli arresti domiciliari per motivi apparsi presto fumosi. Anche se questo non ha impedito al regista di lavorare da casa sua con ancora più convinzione al montaggio.

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Ne è uscito fuori un film sempre ben amalgamato, elegante, fortemente ispirato, malgrado un montaggio che assembla in modo continuato registri visivi e filmici diversi, spesso opposti, a metà tra il nascente videoclip e certo cinema grezzo dell’underground statunitense anni settanta, con una splendida e molto varia colonna sonora, da Lou Reed a Blondie, da Iggy Pop a David Bowie, accostati a un rock russo a seconda dei momenti energico o malinconico. Un film strutturato tra improvvisazione e maestria, tra bianco e nero limpido e colore slavato tipico dei filmati amatoriali di quegli anni. Un acquarello in bianco e nero, leggero e profondo, piacevolissimo da guardare e ascoltare, pieno di ragazze e ragazzi bellissimi, pudici e sfrontati insieme, che offre allo spettatore un ritratto inedito e originale di un mondo che non c’è più e che noi stessi non conosciamo bene. Quello appunto della nascita di una cultura rock alternativa e anarcoide, allegra e speranzosa negli ultimi anni della stagnazione brezneviana prima del tracollo della stessa Urss all’inizio del decennio successivo.

Sottilmente onirico ma sempre con un piede netto nella realtà, si muove perfettamente su un esile crinale

Il film opera uno splendido cortocircuito spazio-temporale conferendo ai due gruppi rock raccontati attraverso i loro due leader, gli Zoopark e i Kino – il secondo filiazione del primo – un’epica da grande gruppo pop rock occidentale immessa nella realtà ben più ristretta, chiusa, mesta, della Russia comunista di quegli anni. Un desiderio di libertà, di ampliare gli spazi a dismisura, di abbattere i muri, quei muri che alcuni stanno facendo tornare un po’ dappertutto. Summer, fantasioso e libero, con stile aereo, un senso unico delle atmosfere, in gran parte antinarrativo, pur esprimendo un sentimento interiore di una speranza andata perduta, è in realtà pieno di energia, estremamente positivo. Come se fosse stato fatto oggi, come se fosse un film del presente. Sottilmente onirico ma sempre con un piede netto nella realtà, si muove perfettamente su un esile crinale. Tra cruda realtà e sogno di un’altra realtà, di un mondo altro. Un film astronave.

Un film che riesplora gli ambienti e li reinventa, insieme a micro situazioni che il cineasta russo estende a piccoli paradigmi dell’anelito, a una reinvenzione del mondo, un film che sembra chiedersi costantemente “se le cose fossero andate in altro modo”. Questo “se” è quello dei poeti e dei rivoluzionari. Compiendo così un atto politico in una Russia contemporanea dove artisti e musicisti pop contestatari possono finire a più riprese in prigione come insegna anche la bruttissima vicenda delle Pussy riot. Il film, preciso nella ricostruzione quanto profondamente empatico, da un lato ausculta un’interiorità russa che pare eterna, dall’altro rievoca nella sua ricostruzione un clima, un sentimento collettivo, un ricordo labile facendolo perdurare, concedendo almeno a questa speranza la durata di un’estate che coincide con la durata di un film di poesia. Summer è questo, prima di tutto.

Un’opera che celebra la stasi, la sospensione poetica e dove l’apparizione di un bosco maestoso lascia a bocca aperta. Poco dopo c’è la spiaggia, il mare, si suona, si canta, si beve e si fuma. Gli spazi sembrano quasi infiniti, grazie a una spazialità da cinemascope e una profondità di campo davvero da cinema di altri tempi, in questa Urss sobria, grigia, disadorna che i protagonisti vogliono a tutti i costi colorare, con libertà e fantasia. Infatti, qua e là, oggetti della quotidianità come le automobili sono ridisegnati nei contorni in bianco con la computer graphic come se fosse il gessetto della lavagna, adattando in maniera personale la lezione dei film del regista statunitense Richard Linklater. Un film dallo spirito anche un po’ beatlesiano. Più avanti si pensa invece al John Lennon di Imagine. Ma anche a Double fantasy, citato nel film, il disco testamento di John Lennon e Yoko Ono.

Eppure, anche se è una Russia disadorna, il senso dello spazio di Serebrennikov nell’esplorare ambienti e architetture, come quello di un ampio mercato delle pulci al coperto, rivela uno sguardo ampio, maestoso, che restituisce sempre un desiderio di vastità. Malgrado sia un mondo un po’ clandestino. Underground in tutti i sensi.

Non era sempre facile e così spensierato essere dei rocker ventenni e libertari nella Russia sovietica, ed era facile incorrere per delle sciocchezze nella repressione o subire violenza fisica dai cittadini stessi, anche se gli esponenti delle autorità non mancano sempre di una qualche tolleranza e benevolenza, autorità alla quale il regista sembra conferire un minimo di umanità pur facendone affiorare al tempo stesso, tra le righe, il lato grottesco. Splendidi e intensi nella loro delicatezza i personaggi femminili, in particolare quello di Natasha, insieme trait d’union e filo divisorio tra i due rocker, sirena discreta ma dalla presenza forte in un ambiente dominato dai maschi. Anche se non furono maschi bruti. Straordinario del resto il gioco di sguardi silenziosi, pudici, eppure eloquenti in questo film dove si vedono tanti corpi nudi fare il bagno al mare ma nemmeno una scena di sesso, un’anomalia in un film su dei gruppi rock.

La brutalità della realtà affiora nel finale, quando veniamo informati che i due protagonisti maschili sono morti tra il 1990 e il 1991, cioè alla vigilia del disfacimento definitivo del regime sovietico. Allo spettatore restano per intero la positività e l’intensità di questo film avvolto in una nuvola di leggerezza poetica di un’altra epoca.

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