Due anniversari e una svendita: la Repubblica e la Stampa, due dei più importanti quotidiani italiani, avrebbero anniversari importanti da festeggiare nel 2026, ma nessuno in redazione ha voglia di farlo.

Il 14 gennaio 1976 usciva a Roma il primo numero del quotidiano la Repubblica, mentre cinquant’anni prima la famiglia Agnelli, proprietaria del gruppo Fiat, aveva acquistato il quotidiano torinese la Stampa. A distanza di un secolo la famiglia Agnelli, guidata da John Elkann, nipote di Gianni Agnelli e capo della holding Exor, ha deciso di abbandonare del tutto il settore dei mezzi d’informazione cedendo il gruppo Gedi, che raccoglie le sue attività giornalistiche, radiofoniche e televisive. La redazione di Repubblica il 12 dicembre ha scioperato per 24 ore annunciando di essere pronta a “una stagione di lotta dura”, dopo che la proprietà ha confermato le indiscrezioni che circolavano da settimane: Gedi sarà ceduta al gruppo Antenna, controllato dai Kyriakou, una famiglia di imprenditori greci.

Il periodo d’oro

Il gruppo Antenna, finora sconosciuto in Italia, ha i suoi interessi principalmente in Grecia e in vari paesi balcanici come Slovenia, Serbia, Montenegro e Romania. A quanto pare Antenna vorrebbe acquistare il gruppo Gedi soprattutto perché interessato alle tre emittenti radiofoniche Radio DJ, Radio Capital e Radio m20, mentre non mostrerebbe interesse per i due quotidiani. Secondo la Stampa, i cui giornalisti hanno scioperato l’11 dicembre, “il potenziale acquirente avrebbe già esplicitato il suo disinteresse per il quotidiano, per cui si sta cercando un altro potenziale editore”. E per quanto riguarda la Repubblica girano voci simili. Del resto, non deve sorprendere che la famiglia Agnelli voglia uscire dal settore dei mezzi d’informazione, dopo che nel 2024 il gruppo Gedi ha registrato una perdita intorno ai 40 milioni di euro, mentre dal 2019 ha accumulato un deficit complessivo di 360 milioni di euro.

Nessuno in Italia crede che la situazione possa migliorare: il mercato dei quotidiani ha infatti subìto un crollo. Si vendono 1,3 milioni di quotidiani al giorno, abbonamenti digitali inclusi (in Germania, invece, le copie vendute sono circa 10,5 milioni). Si tratta di un declino particolarmente difficile da digerire soprattutto per la Repubblica che negli anni d’oro (gli anni novanta) vendeva 700mila copie al giorno, arrivava a più di 600mila nei primi anni del duemila, mentre oggi ne vende circa centomila. Al calo delle vendite corrisponde un’altrettanto drastica perdita di importanza per questo giornale un tempo prestigioso.

È nato nel 1976 come una coraggiosa iniziativa editoriale di Eugenio Scalfari, che negli anni cinquanta aveva fondato il settimanale L’Espresso, e che con il nuovo quotidiano voleva essere all’avanguardia sia sul piano dell’informazione sia sul peso esercitato sull’opinione pubblica.

In un periodo in cui i governi erano dominati dalla Democrazia cristiana e il Partito comunista guidava l’opposizione, Scalfari diede spazio a una voce indipendente che rappresentasse la sinistra liberale. Alla fine degli anni settanta favorì l’avvicinamento tra i comunisti guidati da Enrico Berlinguer e la Democrazia cristiana, mentre negli anni ottanta appoggiò il segretario democristiano Ciriaco De Mita, favorevole al dialogo con la sinistra, e si oppose al leader del partito socialista Bettino Craxi, convinto anticomunista.

All’epoca si diceva che Scalfari guidasse un partito tutto suo, “il partito di Repubblica” e che avesse un suo programma per modernizzare l’Italia. E quando nel 1994 Silvio Berlusconi decise di fondare un partito, la Repubblica diventò la principale voce dell’opposizione politica e sociale al leader di Forza Italia, che aveva creato un impero televisivo. Il conflitto tra Scalfari e Berlusconi era anche di tipo personale: nel 1989, infatti, l’imprenditore milanese aveva tentato una scalata ostile alla Repubblica e al settimanale L’Espresso, a cui Scalfari si oppose strenuamente, riuscendo ad averla vinta.

La Repubblica, però, non è stata solo il quotidiano capofila dell’antiberlusconismo. È stata anche un giornale che poteva permettersi di inviare un giornalista del calibro di Giorgio Bocca nel sud del paese per settimane, se non per mesi, a realizzare delle inchieste, un giornale che dava spazio agli altrettanto approfonditi reportage di Paolo Rumiz sull’Europa centrale. Oggi di quegli antichi fasti resta ben poco, ma la Repubblica può ancora vantare una redazione esteri di tutto rispetto, che si tratti di seguire la Germania o il Medio Oriente.

L’inizio della fine

Con ogni probabilità il 2019 sarà ricordato come l’inizio della fine: l’anno in cui la famiglia De Benedetti cedette il controllo del gruppo Gedi – e quindi anche di Repubblica – alla famiglia Agnelli, guidata da John Elkann. All’epoca Elkann aveva annunciato grandi progetti: con la Repubblica – che a quel punto apparteneva allo stesso gruppo editoriale della Stampa – avrebbe lanciato “l’offensiva digitale”.

La sua prima mossa, però, fu il licenziamento del direttore, che era sempre stato in linea con la tradizione del quotidiano, per sostituirlo con Maurizio Molinari, fino a quel momento direttore della Stampa. Sotto la guida di Molinari la Repubblica è diventata sempre più anonima e il direttore è stato soprattutto un esecutore di Elkann, non pubblicando gli articoli sgraditi al padrone, finché un anno fa la redazione non si è ribellata. Molinari ha poi dovuto lasciare l’incarico, ma il declino del giornale non si è fermato.

Adesso Elkann ha deciso di vendere la Repubblica senza nemmeno aver parlato con la redazione, che vorrebbe sapere quale direzione si prenderà dal punto di vista editoriale, economico, sociale e che stavolta sa di avere dalla sua non solo l’opposizione, ma anche il governo di destra di Giorgia Meloni. La presidente del consiglio, infatti, il 12 dicembre ha convocato a Roma i vertici del gruppo Gedi e i sindacati, anche se i colloqui non hanno portato a risultati concreti. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1645 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati