Il 16 dicembre l’Unione europea ha rinunciato a imporre alle case automobilistiche il divieto di vendere dal 2035 veicoli con motore termico o ibrido, misura che implicava il passaggio definitivo all’elettrico. Le aziende potranno continuare a vendere una quota limitata di auto a determinate condizioni, in particolare quella di compensare le emissioni di anidride carbonica derivanti da questa maggiore “flessibilità”. Bruxelles non rinuncia alle sue ambizioni climatiche, ma adotta un approccio “pragmatico” di fronte alle difficoltà del settore automobilistico, ci ha tenuto a sottolineare il commissario europeo dell’industria Stéphane Séjourné.

In particolare, entro il 2035 le case automobilistiche dovranno ridurre del 90 per cento le emissioni di anidride carbonica delle auto vendute rispetto ai livelli del 2021, e compensare il restante 10 per cento; il settore dovrà essere completamente decarbonizzato entro il 2050; la Commissione europea ha anche affermato di voler incentivare lo sviluppo di modelli elettrici di piccole dimensioni a prezzi accessibili. Ma questa decisione, che ora dovrà essere approvata dagli stati membri e dal parlamento europeo, è destinata, nel migliore dei casi, a non risolvere i problemi del settore.

Il divieto era una misura chiave del Patto verde europeo, che dovrebbe permettere all’Unione di raggiungere la neutralità carbonica nel 2050. Ma negli ultimi mesi Bruxelles ha subìto pressioni molto forti dalle case automobilistiche – soprattutto da quelle tedesche – che attraversano una crisi senza precedenti a causa della concorrenza della Cina e dei dazi imposti dagli Stati Uniti (in quest’articolo ho parlato dei problemi dell’industria europea).

La principale vittima è la Germania: quello che fino a poco tempo fa era il “campione mondiale delle esportazioni” è stato spodestato dalla Cina. I numeri sono impietosi: nei primi nove mesi del 2025 le esportazioni tedesche negli Stati Uniti sono diminuite del 7,4 per cento; quest’anno la Germania è in deficit con la Cina per quanto riguarda i beni d’investimento; le esportazioni in Europa di macchinari fabbricati nel paese asiatico sono raddoppiate negli ultimi sei anni; dal febbraio del 2022 il numero di disoccupati in Germania ha superato quota tre milioni (il livello più alto dal 2014) in 37 mesi su 44, mentre il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 6,3 per cento.

Grandi aziende come le case automobilistiche Volkswagen, Porsche e Mercedes-Benz, insieme ai fornitori Bosch, Continental e Zf, hanno già annunciato decine di migliaia di licenziamenti. L’industria automobilistica tedesca nel giro di un anno ha mandato a casa quasi cinquantamila dipendenti. Per la prima volta nei suoi 88 anni di storia, inoltre, la Volkswagen ha deciso di chiudere un suo impianto in Germania: quello di Dresda, aperto nel 2002 e di recente dedicato allo sviluppo dei veicoli elettrici. Tutto questo succede mentre la Germania si trova nel suo quarto anno di stagnazione.

Puntare ancora sul motore a combustione credendo di salvare lo status quo è quanto meno illusorio, se non decisamente dannoso. Certo, le auto elettriche ancora non convincono molte le persone, soprattutto perché eccessivamente costose. E come fa notare Bloomberg, la benzina e il diesel sono carburanti tutt’altro che morti: dopo la pandemia l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) aveva previsto che il consumo della benzina e del diesel non avrebbe più superato il livello del 2019, ma intanto nel 2024 il consumo di benzina ha registrato il record assoluto con 27,36 milioni di barili al giorno; all’inizio l’Iea aveva parlato di picco, suggerendo un calo nel 2025, ma quest’anno si è arrivati 27,62 milioni di barili al giorno, complici le nuove norme a favore delle fonti fossili negli Stati Uniti (dove la Ford ha cancellato investimenti nell’auto elettrica per quasi venti miliardi dollari) e nel Regno Unito.

Bisogna però considerare che la concorrenza cinese non dà tregua alle case automobilistiche europee neanche nel campo dei motori tradizionali: dal 2020 i veicoli con motori termici costituiscono il 76 per cento delle esportazioni cinesi di auto, e quest’anno sono balzate da un milione a più di 6,5 milioni. Tra i maggiori esportatori ci sono aziende controllate dallo stato, come la Saic, la Baic, la Dongfeng e la Changan, che per anni hanno sfruttato le tecnologie e il know how di partner occidentali. Con l’ascesa dell’auto elettrica in Cina, queste aziende si sono concentrate sui mercati esteri, un tempo dominio esclusivo dei loro partner. Le esportazioni della Saic, per esempio, per anni legata alla statunitense General Motors, sono passate da quasi quattrocentomila veicoli nel 2020 a più di 1,5 milioni quest’anno. Oggi solo due dei dieci principali esportatori di auto attivi in Cina producono esclusivamente veicoli elettrici: la statunitense Tesla e la cinese Byd.

Per uscire dalla sua crisi profonda l’auto europea non può quindi contare sul passo indietro imposto a Bruxelles o sul protezionismo. Sempre che non sia troppo tardi, come temono i più pessimisti, le aziende del settore dovrebbero concentrarsi sulla riduzione dell’indubbio divario tecnologico rispetto alla Cina e sulla dipendenza dal paese asiatico per molte materie prime, innanzitutto nel campo delle terre rare. Ora l’Unione europea ha mandato alle aziende e ai consumatori un segnale quanto meno confuso: come osserva il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, in Europa le case automobilistiche avevano già cominciato a “investire in nuovi impianti e nelle nuove tecnologie, mentre le persone cominciavano già ad abituarsi all’idea che l’auto elettrica sarebbe stata il futuro”. La politica avrebbe dovuto consolidare questi processi e aiutare a raggiungere l’obiettivo. Invece adesso ha solo creato un “clima d’incertezza” che non fa bene a nessuno.

Lo scenario peggiore è che il divario non sia più colmato e arrivi la deindustrializzazione. Di recente la Volkswagen ha affermato di poter produrre un veicolo elettrico interamente in Cina alla metà dei costi che sosterrebbe in qualunque altro paese. Il più grande produttore di auto europeo per la prima volta può sviluppare veicoli lontano dalla Germania, comprese le attività di test e le nuove tecnologie, come la guida assistita. Un altro segnale allarmante arriva da una notizia apparentemente secondaria: la polemica esplosa tra i sindacati tedeschi e la Deutsche Bahn, le ferrovie di stato intorno all’acquisto di alcuni autobus.

Il settimanale Der Spiegel racconta che i sindacati sono sul piede di guerra perché la Deutsche Bahn ha deciso di comprare autobus con motore elettrico in Cina. All’inizio di aprile l’azienda aveva annunciato un accordo per l’acquisto di un migliaio di autobus elettrici, in parte (settecento) dalla cinese Byd. Martin Burkert, leader del sindacato dei trasporti (l’Eisenbahn- und Verkehrsgewerkschaft,Evg), ha annunciato una dura battaglia nel consiglio di sorveglianza della Deutsche Bahn, dove siede per conto dell’Evg. L’azienda, scrive il settimanale, si è affrettata a smentire i numeri, ma senza “indicare le cifre dell’affare e altri dettagli”.

Questo articolo è tratto dalla newsletter Economica.

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