Siamo nel 2125 e la Terra è sull’orlo di un’apocalisse ambientale. Spore mutanti liberate dagli esseri umani – nello specifico, da un maldestro ex boscaiolo di nome Vick – hanno invaso il pianeta, che ora è dominato da giganteschi funghi rosa predatori. Serve una reazione drastica. Per fortuna, due orsi sono pronti a intervenire usando delle tecnologie d’avanguardia: un “agente di purificazione delle spore” bioingegnerizzato, droni che spargono semi e un cannone laser alimentato da fonti rinnovabili.
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È la trama di Boonie bears: future reborn, undicesimo capitolo di una popolare serie di film d’animazione cinese, uscito nel gennaio 2025. Il film si distingue da molte opere culturali approvate da Pechino per l’ottimismo e l’universalità del suo messaggio ambientalista. Colpisce anche la chiarezza del sottotesto: Vick ha l’aspetto di un occidentale. Briar e Bramble, i protagonisti, sono due vivaci orsi neri asiatici, chiaramente identificabili come cinesi. Le azioni degli altri, sembra dire il film, hanno creato una crisi ambientale da affrontare con urgenza. La soluzione è la tecnologia. E la Cina prende la guida.
Il messaggio ha delle chiare implicazioni. La Cina sta ampliando la sua capacità di energia rinnovabile a un ritmo e su una scala inimmaginabili. Questo sviluppo è ormai fondamentale per l’espansione della produzione di elettricità da cui dipende l’economia cinese, e ha raggiunto un livello tale che le emissioni di anidride carbonica del paese, ancora enormi, sembrano vicine al picco massimo, o forse lo hanno già raggiunto. L’innovazione, le economie di scala e la concorrenza spietata legate a questo boom hanno fatto crollare i costi di pannelli solari, batterie e turbine eoliche. Di conseguenza, nei paesi del sud del mondo, da cui proviene la maggior parte delle emissioni di anidride carbonica, l’elettricità sta diventando sempre più accessibile ed economica. Questo rende possibile un circolo virtuoso: più gli altri paesi investono a condizioni convenienti in una crescita senza combustibili fossili, meglio è per l’industria cinese. Il successo della seconda economia mondiale appare sempre più legato al livello di ambizione con cui il mondo affronta la crisi climatica.
Sul fronte del cambiamento climatico, la Cina ha una capacità d’azione ineguagliabile. Data l’enorme mole delle sue emissioni, è uno dei pochi stati in grado di ridurre in modo significativo quelle di tutto il mondo semplicemente attraverso le proprie scelte. E la forza della sua industria delle rinnovabili la mette nelle condizioni di spingere gli altri paesi a seguire la stessa strada.
La Cina ha più che mai interesse ad agire. Anche se la ricchezza, le competenze tecnologiche e il potere dello stato le danno la possibilità di adattarsi al cambiamento climatico meglio di molti altri paesi, è anche molto vulnerabile. Il territorio cinese è particolarmente esposto ai rischi dell’innalzamento del livello del mare, delle siccità e delle ondate di caldo, e le temperature sono aumentate sensibilmente negli ultimi anni. Contrastare queste minacce può diventare una fonte di legittimità politica per il presidente Xi Jinping.
Segnali di svolta
Per la Cina, però, la questione climatica non riguarda solo la protezione della popolazione. Pechino vede nella sfida una grande opportunità economica e geopolitica. Installare impianti per le rinnovabili a un ritmo pari o superiore a quello del resto del mondo è considerato un motore fondamentale per la crescita. Esportarli è un’occasione per rafforzare il proprio soft power attraverso l’assistenza tecnica e il coordinamento diplomatico. Ciò potrebbe tradursi in un maggiore accesso alle risorse naturali, in un maggior peso nei negoziati internazionali e perfino in nuovi siti per le sue basi militari. Le azioni per il clima coincidono quindi con le preoccupazioni per la sicurezza energetica e alimentare.
E questo può essere realizzato in gran parte a spese del suo principale rivale. In un mondo in cui Cina e Stati Uniti sono in competizione in moltissimi campi, il clima è un ambito in cui Pechino ha ottime carte in mano, mentre il presidente statunitense Donald Trump ha abbandonato il tavolo.
Negli ultimi mesi sono arrivati segnali di cambiamento. All’inizio di ottobre il centro studi Ember ha affermato che nella prima metà del 2025 il pianeta ha ricavato più elettricità dalle rinnovabili che dal carbone. Non solo: l’aumento dell’energia prodotta dalle rinnovabili in quei sei mesi ha superato quello della domanda complessiva. L’enorme espansione degli impianti in Cina è il fattore principale dietro entrambe queste trasformazioni.
Poco prima, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, era emerso un forte contrasto tra le superpotenze. Nel suo intervento del 23 settembre, Trump ha definito il cambiamento climatico una “truffa”. Il presidente statunitense, che sembra detestare visceralmente l’energia eolica, ha accusato Pechino d’ipocrisia, perché esporta turbine ma non le installa sul suo territorio. “Usano il carbone, usano il gas, usano quasi tutto, ma non gli piace il vento. Ma di certo gli piace vendere i mulini a vento agli altri”.
L’idea che la Cina rinunci all’energia eolica in patria è assurda, dato che è il paese con la maggiore capacità installata al mondo. E vende molte turbine all’estero perché è un ottimo affare. Oggi la Cina guadagna molto di più dalle esportazioni di pale eoliche, auto elettriche, celle solari e simili di quanto gli Stati Uniti ricavano dalla vendita di combustibili fossili.
Il giorno successivo Xi ha annunciato l’impegno a ridurre entro il 2035 le emissioni cinesi di gas serra del 7-10 per cento rispetto al picco massimo. Non sarà un obiettivo ambizioso quanto avrebbero sperato gli scienziati più preoccupati per il clima, ma è un impegno reale, quantificabile, che il paese sembra intenzionato a rispettare.
Fino a poco più di dieci anni fa la posizione della Cina sul cambiamento climatico era che ridurre le emissioni avrebbe comportato costi enormi per l’economia e che l’onere spettava ai paesi più sviluppati, che – come il taglialegna Vick – avevano riempito l’atmosfera di anidride carbonica. A metà dello scorso decennio questa posizione, soprattutto la seconda parte, era diventata indifendibile. La Cina era diventata il paese con le maggiori emissioni di gas serra già nel 2006, superando gli Stati Uniti, e nel 2012 era responsabile di un quarto delle emissioni globali, pari a 36 miliardi di tonnellate. Nell’autunno del 2014 Xi aveva incontrato Barack Obama per accordarsi su come garantire il successo della conferenza di Parigi sul clima, prevista per l’anno seguente. In base all’accordo sottoscritto al vertice, la Cina aveva promesso che “intorno al 2030” le sue emissioni avrebbero smesso di crescere e le rinnovabili avrebbero coperto il 20 per cento del suo consumo primario di energia.
Pechino ha superato già quest’anno l’obiettivo del 20 per cento di energia verde. Anche il picco delle emissioni complessive sembra essere stato raggiunto con circa cinque anni di anticipo. Secondo molti analisti ci si arriverà già quest’anno. Alcuni dicono che sia stato addirittura superato. In pochi pensano che sia distante più di uno o due anni.
Nel suo discorso all’Onu a settembre, Xi ha annunciato che entro il 2035 la capacità eolica e solare della Cina raggiungerà i 3.600 gigawatt (Gw), rispetto ai 1.700 attuali. Alla fine del 2024 la capacità installata di eolico e solare nell’Unione europea era di 570 Gw, quella statunitense di 330 Gw. Anche se il ritmo delle installazioni cinesi è destinato quasi certamente a rallentare nei prossimi anni, non è irragionevole pensare che anche questo obiettivo possa essere raggiunto in anticipo.
Il fiore all’occhiello
Tutto questo non cambia il fatto che la Cina resta il paese con le maggiori emissioni di gas serra, responsabile di quasi un terzo del totale. Pechino continua a fare affidamento sul carbone come principale fonte di energia, non ha ancora ridotto il rapporto tra emissioni e pil nella misura promessa a Parigi, e gli impegni attuali non le consentiranno di azzerare le sue emissioni nette entro il 2060 come ha promesso di fare. La quota di riduzione annunciata da Xi è ben lontana dal 20 per cento ritenuto necessario per allineare la Cina al principale obiettivo concordato a Parigi: mantenere l’aumento globale delle temperature rispetto al 1850 ben al di sotto dei 2 gradi.
Cambia però il contesto di questi dati. Quando nel 2015 è stato varato il piano industriale “Made in China 2025”, nessuno poteva prevedere fino a che punto l’impegno di dominare le industrie all’avanguardia avrebbe favorito il processo incarnato dall’accordo di Parigi. Oggi la Cina fornisce dal 60 all’80 per cento dei pannelli solari, delle turbine eoliche, dei veicoli elettrici e delle batterie al litio del pianeta. Nel 2024 le tecnologie verdi, uno dei fiori all’occhiello del programma Made in China, valevano il 10 per cento del suo pil e hanno contribuito al 26 per cento della crescita del paese, superando il comparto immobiliare, tradizionale motore dell’economia ma sempre più in difficoltà. Il settore è considerato un pilastro della missione di Xi di realizzare la “modernizzazione socialista” entro il 2035 e “ringiovanire la nazione cinese” entro la metà del secolo.
I benefici vanno ben oltre il taglio delle emissioni. La Cina produce solo un quarto del petrolio che consuma, una preoccupazione costante per un paese che punta molto sull’autosufficienza. I timori per la stabilità delle regioni da cui proviene il greggio si sommano a quelli sulle rotte di approvvigionamento. Da tempo la Cina teme che gli Stati Uniti possano bloccare le forniture in un potenziale conflitto su Taiwan, e le ultime schermaglie con l’amministrazione Trump hanno rafforzato queste preoccupazioni. Le energie rinnovabili, in particolare i veicoli elettrici, sono un modo per ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni.
Nel 2035 Xi avrà 82 anni, e questo potrebbe essere il suo ultimo decennio al potere. Li Shuo, direttore del China climate hub presso l’Asia society policy institute descrive così le scelte che lo attendono: “C’è la tentazione di pensare che, se il resto del mondo non si impegna, perché dovremmo farlo noi? Dall’altra parte, però, i vantaggi economici sono sempre più evidenti. E poi c’è l’immagine globale. Chi è l’adulto nella stanza? Chi è il soggetto più responsabile sulla scena internazionale?”.
Essere responsabili, tuttavia, significa avere la volontà di fare scelte difficili e di metterle in pratica. Nel 2021 Xi si è impegnato a “limitare rigorosamente” l’aumento del consumo di carbone. Ma una serie di gravi blackout quello stesso anno ha rafforzato la radicata convinzione che il carbone sia sinonimo di sicurezza energetica. Così Pechino ha continuato a costruire centrali. Nel 2024 ha avviato i lavori per 100 Gw di nuova capacità a carbone, pari alla capacità complessiva di gas, nucleare e rinnovabili del Regno Unito.
I piani per eliminare il carbone incontreranno la resistenza degli operatori delle centrali e delle amministrazioni locali. Affrontare questa sfida richiederà non solo uno sforzo politico, ma anche l’impegno a rendere la rete elettrica più capace di integrare le rinnovabili. Ciò significa grandi investimenti, una pianificazione attenta e livelli di flessibilità a cui un sistema storicamente fondato sul rigido controllo statale opporrà resistenza.
Prezzo politico
La seconda grande sfida è coniugare la crescita e la transizione energetica. Al momento il settore cinese delle tecnologie verdi deve fare i conti con una crisi di sovrapproduzione; il ridimensionamento è già in corso e potrebbe rivelarsi molto doloroso. Ma se poi la capacità delle rinnovabili non riuscirà a tenere il passo della domanda di settori ad alto consumo energetico, come l’intelligenza artificiale, Pechino potrebbe tornare a puntare sui combustibili fossili. Un rallentamento dell’economia potrebbe spingere il governo ad aumentare gli investimenti in cemento, acciaio e altre industrie ad alte emissioni, alla ricerca di posti di lavoro e di entrate fiscali.
Infine, la geopolitica. La posizione dominante della Cina sta alimentando il protezionismo in altri paesi, industrializzati e non. La volontà più volte dimostrata da Pechino di sfruttare il suo controllo strategico su diversi minerali cruciali nella sua guerra commerciale con gli Stati Uniti accrescerà le preoccupazioni. Se la decarbonizzazione significa dipendere da una Cina che usa queste tattiche, il prezzo politico aumenta anche se quello economico cala.
Conquistare e mantenere una posizione di leader mondiale sul clima non sarà facile. Ma se la Cina cogliesse l’opportunità, potrà fare molto per limitare i danni che il cambiamento climatico provoca agli abitanti di tutto il mondo, e per riorganizzare la geopolitica in base ai suoi più prosaici interessi. ◆ fas
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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati