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Kanye West non crede in dio, si crede dio

Kanye West. (Mario Anzuoni, Reuters/Contrasto)

Kanye West, Use this gospel
Jesus is king, il nuovo disco di Kanye West, è stato annunciato dal suo autore come un album gospel. E lo è, ma fino a un certo punto. In realtà parla soprattutto dell’argomento che sta più a cuore a Kanye West: Kanye West. Il brano iniziale in effetti è in pieno spirito gospel: Every hour è affidata alle voci del Sunday Service Choir ed è l’unico episodio in cui il rapper statunitense non prende il microfono. Ma dal secondo pezzo in poi si capisce che questo disco non è così diverso dagli ultimi lavori di West.

I temi dell’album, a partire dai tantissimi (e spesso un po’ banali) riferimenti ai testi sacri, convergono in modo naturale verso l’ego di West. In Selah, il secondo brano in scaletta, West si paragona a Noè prima del diluvio, cita il Vangelo secondo Giovanni, e in fondo ci ricorda che è lui a vincere, è lui ad avere il talento, prima di lanciarsi in un finale dove non rappa né canta: urla. Ogni tanto nel corso dei brani torna sui temi controversi sui quali ha preso posizione negli ultimi mesi (Donald Trump, la schiavitù, il tredicesimo emendamento), ma lo fa con la solita confusione.

Come al solito però, più che per la capacità di leggere la realtà, West impressiona per le sue doti di produttore e arrangiatore. Anche stavolta dà una lezione sull’arte del campionamento. In Follow God fa tornare in vita il brano del 1969 Can you lose by following God. In Closed on sunday, una canzone dedicata alla catena di fast food Chick-fil-A, forse l’episodio più strano dell’intero disco, ripesca la chitarra acustica di un oscuro (almeno per me) disco firmato Grupo Vocal Argentino e Chango Farías Gómez.

Water invece è un inno al sacramento del battesimo ed era già stato proposto dal vivo. Doveva far parte di Yandhi, il disco che doveva uscire nei mesi scorsi ed è stato messo in naftalina (quello che “tutti volevano prima che Gesù facesse il bucato”, per citare lo stesso West). È uno dei momenti migliori di Jesus is king, ma anche On god, che ha un beat firmato da Pierre Bourne, e Hands on, satura di autotune, non sono da meno. Forse però il vertice assoluto è Use this gospel, un brano minimalista, nel quale West rimette insieme il duo rap Clipse e concede il finale a un assolo del sassofonista Kenny G. Una richiesta di perdono che suona sincera come nient’altro in questo disco.

Jesus is king dura solo 27 minuti e, considerati gli standard di Kanye West, ha degli arrangiamenti molto sobri, quasi dimessi (in questo ricorda in parte 808s & Heartbreak, il disco del 2008 composto dopo la morte della madre Donda). Non è un album perfetto e a tratti manca un po’ di coesione tra i pezzi. Eppure ha il fascino che hanno solo i dischi minori dei grandi artisti. Non è sicuramente l’album migliore di Kanye West, ma offre diversi momenti interessanti.

C’è un’altra cosa da far notare. Jesus is king è soprattutto un album sulla malattia mentale. West, si sa, soffre di disturbo bipolare. Stavolta il tema non è trattato in modo esplicito come nel precedente Ye, ma questo approccio ossessivo alla fede, la pubblica abiura della “musica profana”, le assurde richieste alle persone che hanno lavorato con lui al disco di non fare “sesso prematrimoniale” sembrano più una diretta conseguenza della sua psiche turbata che un processo di avvicinamento all’Altissimo. Perfino le già citate uscite sulla schiavitù e il sostegno a Donald Trump possono essere inserite in quel contesto.

Ma tutto questo non importa. Kanye West, come tutti i grandi artisti, ti costringe a entrare nel suo mondo, anche se non è sempre piacevole starci. E ha un’altra caratteristica che hanno solo i fuoriclasse: è un impostore, come diceva Joni Mitchell di Bob Dylan. Stavolta si è appropriato della Bibbia, come fece lo stesso Dylan nel suo periodo cristiano. Ma tra due anni, chi lo sa, potremmo ritrovarcelo di nuovo alle premiazioni di Pornhub. La differenza tra West e gli altri è che lui può permettersi di essere incoerente, perché il suo talento è così grande da poter sopportare gli scossoni del suo ego.


Desert Sessions, Move together
Josh Homme ha riportato la sua combriccola di matti nel deserto di Joshua Tree e ha tirato fuori l’undicesimo capitolo delle mitiche Desert sessions. Stavolta in studio con lui sono entrati Billy Gibbons (ZZ Top), Les Claypool (Primus), Mike Kerr (Royal Blood), Jake Shears (Scissor Sisters) e altri. Sono passati sedici anni dall’ultimo capitolo, e il risultato non è all’altezza dei momenti migliori. Ma queste atmosfere sono sempre contagiose.


Marracash, Quelli che non pensano (feat. Coez)
Il 31 ottobre, a tre anni di distanza da Santeria, è tornato Marracash, il “King del rap” italiano. Persona è un disco presentato come un concept, anche se non lo è del tutto. È ricco di ospiti interessanti, alcuni in parte sorprendenti, a partire da Cosmo, che sfodera un ritornello killer nella chiusura ambientalista di Greta Thunberg.

Tra i brani migliori, a giudicare dai primi ascolti, c’è Quelli che non pensano, costruito sul classico del 1997 di Frankie hi-nrg Quelli che benpensano. “O’ algoritmo che sei nei server, manda il mio pezzo nella top 10 e il mio video nelle tendenze. Mandami uno spot ad hoc, non so cosa comprare. Tocca i miei dati sensibili per guidarmi a votare”.


Floating Points, Falaise
Dopo aver pubblicato il suo esordio Elaenia nel 2015, Floating Points è diventato uno dei più importanti artisti dell’elettronica britannica. Il suo nuovo disco s’intitola Crush ed è ispirato e spontaneo. Il brano iniziale, Falaise, è un momento di pura ed eterea bellezza.


The Hu, Wolf totem
Gli Hu sono una band folk metal mongola che sta facendo numeri altissimi su YouTube, non solo in Asia. Il gruppo chiama la sua musica “hunnu rock”. La definizione deriva dalla parola hu, che in mongolo significa “essere umano”. Fanno canzoni su Gengis Khan e sembrano usciti dal Trono di spade. Ma sono bravi.


P.S. Playlist aggiornata, buon ascolto!

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