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La poetica dell’amplesso con il flipper

Gentile bibliopatologo,
la mia esistenza non è solo influenzata, quanto costruita, prodotta dalla letteratura. Mi sembra impossibile sottrarmi alle categorie interpretative che libri di qualsiasi genere (non solo saggi) frappongono tra me e la conoscenza del mondo; questo mi aliena sempre più dall’esterno, dove quello che vedo sembra frutto delle parole degli altri. Come posso rendermi un po’ impermeabile a queste influenze, e accettare la realtà per come si dà davanti ai miei occhi?
– G.G.

Caro G.G.,
filosofi e sapienti delle scuole più disparate, raccolti intorno al tuo capezzale come i medici di Pinocchio, direbbero che sei in preda a un delirio, perché un accesso immediato alla realtà è per definizione impossibile, e tra te e la conoscenza del mondo si frapporranno sempre lenti deformanti di varia foggia, materia e spessore. Concorderebbero, scambiandosi pensosi cenni di assenso sotto le lunghe barbe, che il tuo delirio è causato da quella che la medicina antica chiamava una pletora, una sovrabbondanza del sangue, e ti cospargerebbero di sanguisughe per un bel salasso, così da placare i tuoi eccessi vitali. Il bibliopatologo, che non ha un briciolo della loro dottrina, può offrirti rimedi più spicci, da pronto soccorso casalingo.

Ricordi quella scena di Troppo forte di Carlo Verdone in cui il protagonista, Oscar Pettinari, teorizza che “il rapporto col flipper è come un rapporto sessuale, come un amplesso”, e per darne dimostrazione ci monta sopra e comincia a possederlo selvaggiamente? Ci ripenso ogni volta che mi imbatto nel tipo dello scrittore viscerale, lo scrittore che professa d’immergersi nel corpo e nel sangue della parola, che si sforza di generare nei lettori ferite e traumi e incubi e orgasmi e brividi e insonnie e infarti, che annuncia di calarsi negli abissi dell’innominabile, che vuole spingere la letteratura fino a quel limite estremo passato il quale non è più letteratura ma vita o addirittura vita-oltre-la-vita, esperienza mistica. Li leggo, e rivedo Oscar Pettinari che si dimena in groppa al flipper per far colpo su un ragazzotto con gli occhiali dalle lenti più spesse di fondi di bottiglia.

È una forma di bovarismo, di copula immaginaria con una realtà inattingibile. A volte la poetica dell’amplesso col flipper lo manda in tilt, creando cortocircuiti piuttosto comici. Henry Miller sostenne che la vera fonte della conoscenza non sono i libri, ma la diretta esperienza della vita. Salvo aggiungere, appena dopo:

Quando dico vita, penso naturalmente a qualcosa di diverso da quello che intendiamo oggi. Penso alla vita di cui parla D.H. Lawrence in Luoghi etruschi.

Nota a piè di pagina: “1. Etruscan places, Martin Secker, London, 1932. Vedi le pagine 88-93”. Per immergersi nella vita con la baldanza di un antico etrusco, a quanto pare, bisogna prima di tutto andare nella più vicina biblioteca: la via di fuga dal labirinto di carta è lastricata di carta.

Ma devo avvisarti che fuori dai libri non troverai la vita, la realtà, o una percezione finalmente liberata dal filtro di quelle che tu chiami le categorie interpretative e le parole degli altri. Semplicemente, vedrai le cose attraverso filtri più grossolani. Il guaio è che abbiamo tutti delle lenti a fondo di bottiglia in dotazione fin dalla nascita, e non è certo montando infoiati su qualche flipper che ce ne sbarazzeremo.

Possiamo, questo sì, usare la letteratura come un gabinetto di ottica dove tornire, levigare e lustrare le nostre lenti, così da correggere le deformazioni più vistose e addestrarci nell’arte dell’attenzione, la sola che conti. La grande letteratura serve precisamente a questo, e tu questo devi chiederle, non altro. L’ardore vitalistico dovuto al tuo eccesso sanguigno allora si smorzerà da solo, e forse il concilio dei dottori ti risparmierà le sanguisughe.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

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