Prima della pandemia, la crisi economica cominciata nel 2008-2009, e le conseguenti politiche di austerità, avevano messo sotto forte pressione il sistema sanitario, stretto tra l’aumento dei bisogni di una popolazione sempre più anziana e stringenti vincoli di bilancio. La crisi si è sommata a un orientamento generale che ha fatto del contenimento della spesa pubblica l’obiettivo principale della politica sanitaria.

Tale processo ha radici negli anni novanta, quando sono cominciate “l’aziendalizzazione della sanità” e l’ampliamento della sfera del mercato. Negli ultimi anni queste dinamiche si sono intensificate, con l’aumento dei costi delle prestazioni a carico degli utenti (i ticket) e i tagli alle risorse di fatto disponibili per il Servizio sanitario nazionale (Ssn), aumentando il divario nella spesa sanitaria rispetto ad altri paesi europei.

Elaborando i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), emerge che tra il 2008 e il 2019 la spesa pubblica pro capite per la sanità in Italia è aumentata del 15,8 per cento, contro il 27,2 per cento del Regno Unito, il 36,5 per cento della Francia o il 47,4 per cento della Germania. L’aumento limitato della spesa, inadeguato rispetto ai bisogni e all’incremento dei costi legato all’introduzione di nuove tecnologie, si è tradotto in tagli in tutti gli ambiti. Per esempio i posti letto ospedalieri sono passati da 3,8 a 3,2 per mille abitanti, senza essere compensati da un aumento dei servizi territoriali.

La pandemia ha mostrato tutte le fragilità di un sistema che era già insostenibile. La sua debolezza è risultata evidente rispetto al personale sanitario e sociosanitario, dove c’è stata una riduzione dei dipendenti, passati da 693.600 a 648.507 (-6,5 per cento) tra gli anni 2009 e 2018, e un forte innalzamento dell’età media senza l’ingresso di nuovi assunti. Per tutto lo scorso decennio i carichi di lavoro sono aumentati mentre le retribuzioni sono rimaste bloccate.

La situazione nei servizi sanitari privati è ancora peggiore, con un’alta incidenza di impieghi sottopagati, una marcata differenza nelle tipologie di contratto rispetto ai dipendenti pubblici e l’uso di contratti non sottoscritti dalle principali confederazioni sindacali, come accade in particolare nelle residenze per anziani e nei servizi sociosanitari. A parte poche categorie che hanno avuto aumenti salariali, la maggior parte dei lavoratori dei servizi sanitari e sociosanitari privati ha peggiorato la propria condizione, con salari più bassi e livelli di formazione e qualificazione inferiori rispetto al pubblico.

In questo scenario, la pandemia ha offerto l’occasione per una revisione del sistema sanitario. Va segnalato il rinnovo, dopo 14 anni, del contratto collettivo della sanità privata. Un primo passo non risolutivo, ma in controtendenza rispetto agli anni precedenti. Allo stesso modo, ci si attende che l’incremento dei finanziamenti ordinari al Ssn avviato dal 2020 si consolidi e venga rafforzato. Ma è dal Pnrr che è attesa la svolta. Di particolare importanza è la riforma della sanità territoriale, avviata con il decreto ministeriale 71 del 21 aprile. La debolezza dell’assistenza sanitaria territoriale, infatti, è stata uno dei fattori principali che hanno aggravato la pandemia. ◆

Andrea Ciarini è professore associato presso il dipartimento di scienze sociali ed economiche dell’Università La Sapienza di Roma.

Stefano Neri è professore associato presso il dipartimento di scienze sociali e politiche dell’Università degli studi di Milano.

A. Ciarini, S. Neri, ‘Intended’ and ‘unintended’ consequences of the privatisation of health and social care systems in Italy in light of the pandemic, Trans­fer: european review of labour and research (2021)

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