Perché da un film di successo si decide di ricavare una serie televisiva? Bella domanda. I motivi possono essere editoriali, produttivi, stilistici, se non addirittura autobiografici.

Analizziamo tre serie tv italiane nate da lungometraggi fortemente personali e sviluppate durante la pandemia: Bangla di Phaim Bhuiyan, A casa tutti bene di Gabriele Muccino e Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek. Sono programmati rispettivamente su Rai, Sky e Disney+.

Bangla nasce da un ironico esordio autobiografico del 2019 su un ventenne di origini bengalesi radicato nel quartiere romano di Torpignattara. A casa tutti bene arriva nel 2018 come melodramma familiare in cui i genitori settantenni sono ricchi e solidi mentre i figli quarantenni sono deboli e piagnoni. È anche il ritorno da Hollywood del nostro Muccino, voglioso di riflettere sulla nuova famiglia italiana. Le fate ignoranti di Ferzan Özpe­tek, quando esce nel 2001, cambia per sempre il cinema italiano.

Tre registi e tre lungometraggi che poi si trasformano in serie. Si può pensare che la ragione principale di questa trasformazione sia il bisogno di avere più minuti per approfondire personaggi e trame secondarie. Così certamente è stato ai tempi di Romanzo criminale, film di Michele Placido del 2005 tratto dalle 662 pagine di Giancarlo De Cataldo edite nel 2002 per Einaudi. Già quel film ha due versioni: una da 134 minuti e una da 175. Poi arriva la ormai storica serie originale di Sky nel 2008. Ben 22 puntate in due stagioni (fanno 1320 minuti) in cui declinare le gesta della famigerata banda della Magliana, dal 1977 al 1992.

Il caso Gomorra

Nel caso di Gomorra il linguaggio è centrale. Il saggio best seller di Roberto Saviano del 2006 è incendiario e svela la camorra con un nuovo nome: sistema.

L’io del narratore è onnipresente e s’infiltra tra merci clandestine, carichi di droga, tossici che vagano come zombi e sentinelle nelle roccaforti di Secondigliano e Scampia. Il capolavoro cinematografico di Matteo Garrone del 2008 invece sceglie il nichilismo, nessun io narrante investigatore e moralizzatore col quale identificarsi ma solo fatalismo fatiscente che diventa quasi fantascienza. Al botteghino italiano incassa 10 milioni di euro (47 nel mondo) battendo il secondo film su Batman di Christopher Nolan.

La serie Sky nasce nel 2014 e finisce nel 2021 cambiando ulteriormente lo stile rispetto a libro e film, avvicinandosi a Romanzo criminale come epopea di malavitosi. Nel 2019 Sky distribuisce al cinema un film che narrativamente fa da ponte tra la stagione 4 e quella conclusiva ovvero la 5. Il pubblico televisivo va al cinema? Sì. L’immortale, questo il titolo, incassa 6 milioni di euro. Suburra (libro 2013, film 2015, serie 2017) accorcia ulteriormente i tempi produttivi tra un medium e l’altro. Dopo aver ricordato questi passaggi fondamentali del passato, torniamo al presente.

Nell’era dello streaming

L’esplosione recente di piattaforme di streaming come Disney+, Prime Video e Netflix ha aggiunto giocatori alla partita della produzione seriale. Cambiano i tempi ma lo schema resta invariato: da un film di successo conviene sempre di più far nasce una serie. Phaim Bhuiyan, cineasta di seconda generazione con origini familiari nel Bangladesh, ha le idee chiare. Continua a essere protagonista delle sei puntate di 30 minuti l’una tratte da Bangla, suo film del 2019 che racconta le vicissitudini sentimentali di un ragazzo “50 per cento bangla, 50 per cento italiano, 100 per cento Torpigna” in omaggio al ruspante quartiere romano in cui si ambientano le sue avventure.

“Avevamo deciso di fare la serie già prima della vittoria del David di Donatello per miglior esordiente”, ci racconta Bhuiyan mentre le otto puntate di Bangla sono in onda su Rai3 in prima serata fino al 6 maggio: “Anzi, a essere sinceri doveva uscire subito dopo il film. La differenza è semplice. Il film è tutto sul mio personaggio e i suoi struggimenti amorosi. È più banale. Nella serie, codiretta con Emanuele Scaringi e scritta da Vanessa Picciarelli, abbiamo deciso di proseguire altre storie affrontando temi esterni al protagonista. Ci sono l’estrema destra e una donna di seconda generazione che porta il velo, e si fa più attenzione alla figura della mia fidanzata Asia interpretata da Carlotta Antonelli. Sto prendendo sempre più le distanze da Phaim perché se nel film sono io, nella serie lo vedo più come un estraneo. Questa identificazione tra lui e me sta diventando sempre più pesante anche con i giornalisti. Nella seconda stagione ci sarà una grande rivoluzione”.

Il concetto è interessante: un nostro giovane cineasta di 26 anni, premiato con il riconoscimento cinematografico più prestigioso, vuole recidere le connessioni più ovvie tra lui e il suo alter ego. E lo fa a partire da una serie tv.

Per quanto riguarda Gabriele Muccino, gli otto episodi di A casa tutti bene per Sky sono una stimolante rivoluzione linguistica. Stesso impianto del film, che nel 2018 incassa ben 9 milioni di euro, ma con uno spunto giallo e un finale thriller mai esplorati prima dal re del mélo italico.

Non è puro opportunismo, è più un’opportunità di esplorare nuovi territori

In un’intervista con Gabriele Niola per Bad­Taste.it il regista romano ha ribadito la sperimentazione: “Il meccanismo che mi ha guidato è quello del Padrino in relazione al personaggio di Michael Corleone. È l’espansione del nero che è dentro di noi e che, per una questione di sopravvivenza, viene fuori. Questo mi ha stimolato a pensare la seconda stagione. Nella loro impulsività e nelle nevrosi, i miei personaggi alla fine rimangono in un perimetro di legalità, di facciata ipocrita che li mantiene sempre presentabili. Mi piacerebbe affrontare quel che va oltre questa linea, quando si diventa inaccettabili per la società perché qualcosa ci porta a varcare la linea d’ombra”.

Già la sigla di ogni episodio di A casa tutti bene, chiaramente ispirata a una celebre sequenza di Profondo rosso di Dario Argento, prelude al tono inquietante della serie, ben diverso da quello del film.

Se Muccino si è divertito con il linguaggio, Ferzan Özpetek ha invece riflettuto sul tempo che passa. Le fate ignoranti, come pellicola autoconclusiva, cambia il cinema italiano quando esce nel 2001. Incassa 15 miliardi di vecchie lire (oggi circa 7 milioni di euro) nell’anno in cui Muccino esplode al botteghino con L’ultimo bacio e La stanza del figlio di Nanni Moretti riporta in Italia la prestigiosa Palma d’oro del Festival di Cannes a 23 anni dalla nostra ultima vittoria con L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Özpetek, e il suo sceneggiatore e produttore Gianni Romoli, sono in quel momento i primi a fare un film pop da box office a tema gay senza farsa o macchiette.

Ma oggi? Dopo vent’anni cosa è diventato Le fate ignoranti? Otto puntate per Disney+ in cui la trama non cambia: una donna sposata, eterosessuale e borghese, conosce l’amante (uomo) del marito morto ed entra in relazione con l’ambiente di amici del rivale. “La grande rottura con il film è il finale in Turchia”, ci confida Özpetek: “Mi interessava finire la serie ad Istanbul e la Disney è stata subito d’accordo. Stiamo addirittura pensando di poter eventualmente ambientare lì tutta la seconda stagione. Rispetto al 2001 sento che il mio lavoro è ora più internazionale. Ho amici che mi scrivono da Giappone, Inghilterra, Spagna. Uscirò anche in America”.

Il finale in Turchia è improvviso e stimolante, ed enfatizza l’attrice feticcio di Özpetek Serra Yılmaz, che diventa per la prima volta protagonista di una grande storia d’amore contrastata da problemi politici con il governo turco: “Con Gianni Romoli abbiamo cambiato l’ultima puntata 15 giorni prima di consegnare la stesura definitiva. Ci sembrava bello per Serra che diventasse protagonista. La serie non è un prolungamento del film. C’è tutto un altro sguardo rispetto al 2001 perché quello che conta oggi non è più la sessualità. Non veniamo più definiti in base a essa e quindi i miei due giovani protagonisti possono innamorarsi a prescindere che siano etero o gay”.

Abbiamo dunque davanti tre strade completamente diverse per trasformare un film in una serie. Un giovane regista in conflitto drammaturgico con la sua figura simbolica di pittoresco bangla italiano e poi i due veterani. Muccino, che dal melodramma vuole passare al thriller, e Özpe­tek, che dallo shock dello scontro di vecchie categorizzazioni si avvia verso un’analisi sempre più fluida dei nostri rapporti. Insomma, questa faccenda delle serie dai film non ci sembra opportunismo storico. Ma una storica opportunità per tre cineasti di esplorare nuovi territori.

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