Gli effetti della doppia consultazione del 12 giugno – i cinque referendum sulla giustizia e le elezioni amministrative – rischiano di riguardare non solo il destino del governo di Mario Draghi ma anche un aspetto forse meno evidente ma più importante della vita democratica: la salute della partecipazione popolare. Mai nella storia italiana così pochi elettori sono andati a votare. Certo, per il fallimento più clamoroso, quello dei referendum, ci sono ragioni specifiche: non votare è una tecnica consolidata di chi vuole esprimere contrarietà ai quesiti. Fu inaugurata negli anni novanta, una volta esaurita la prima stagione “eroica” dei referendari, e molte sono state le vittime eccellenti, dall’abolizione della caccia al sistema elettorale maggioritario, dalla procreazione assistita alla separazione delle carriere dei magistrati. Ma l’allarme scatta inevitabile se si associa l’astensione ai referendum con quella alle amministrative. In alcune città importanti il voto sui sindaci ha coinvolto meno della metà degli aventi diritto, e considerato che ai ballottaggi si perde in media un altro 10 per cento di elettori, il quadro che ne risulta è a dir poco desolante.

Da Berlusconi a Conte

Se non è semplice indicare un motivo esauriente per cui gli elettori non vanno a votare, è però possibile individuare almeno una risposta parziale nel fenomeno che da più di dieci anni condiziona profondamente la politica italiana: il populismo. Tra i suoi effetti più dannosi ci sono non solo la sfiducia – certo non immotivata - nella politica e nei partiti come strumenti per risolvere i problemi, ma soprattutto la delegittimazione delle istituzioni e dei corpi intermedi, ovvero i partiti e tutti i gruppi che favoriscono la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Il parlamento diventa così una “scatoletta di tonno da aprire”, come lo definì Beppe Grillo nel 2013, i seggi parlamentari “poltrone da tagliare”, i partiti coacervo di corruzione e interessi personali, le regole e le leggi sovranazionali un impiccio intollerabile.

Siccome anche in politica quasi nulla si inventa, non mancano ovviamente i precedenti, come insegna il ventennio berlusconiano: ma all’epoca il contrappeso delle istituzioni e delle forze democratiche aveva in qualche modo funzionato, certo assai più di quanto accada oggi. L’apice di questo fenomeno si può indicare nelle elezioni politiche di quattro anni fa, quando le forze populiste e sovraniste (cinquestelle, Lega, Fratelli d’Italia) hanno messo assieme quasi il 60 per cento dei voti, con un’affluenza che, se pure in calo, era ancora alta, attorno al 73 per cento. E non è un caso che oggi a scalpitare all’interno del governo siano proprio Matteo Salvini e Giuseppe Conte. La crisi del populismo – ovvero l’incapacità di fornire risposte concrete ai problemi del paese – ha prodotto disaffezione e i leader populisti vorrebbero tornare alle origini nell’illusione di ricreare il momento magico perduto.

Il centrosinistra non ha saputo arginare con determinazione questa tendenza

Ma sarebbe un errore addossare a loro tutte le responsabilità. Il centrosinistra non ha saputo arginare con determinazione questa tendenza, anzi ha finito per alimentarla in un modo che si potrebbe definire “omeopatico”: è stato proprio il primo governo di “larghe intese” presieduto da Enrico Letta ad abolire il finanziamento pubblico della politica, cedendo al pressing dell’opposizione grillina; è stato un altro premier democratico, Matteo Renzi, a impostare la sua battaglia per la riforma costituzionale come un “taglio delle poltrone”. E sono stati tutti i partiti a votare la demenziale riduzione dei seggi parlamentari, poi confermata dal referendum costituzionale del 2020, senza neppure varare una legge elettorale che rimediasse agli squilibri politici e territoriali che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Cosa resta

Tornare indietro appare oggi quanto mai complicato. Anche il rimedio delle primarie, che nel centrosinistra mobilita occasionalmente una parte dell’elettorato, rischia di rivelarsi illusorio, dal momento che anziché favorire un radicamento e un rilancio delle forze politiche finisce per riprodurre una semplice sfida tra comitati elettorali di questo o quel leader.

E allora, cosa resta? A rischio di apparire passatisti, forse la risposta non può che essere fare politica. Magari ricominciando a individuare temi e proposte e a costruirci attorno quelle che un tempo si chiamavano campagne di massa. Probabilmente ha ragione Carlo Calenda quando dice che “arginare le destre” non è un programma di governo. Ma di programmi mobilitanti e al tempo stesso credibili non se ne vedono neppure dalle sue parti.

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