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A Falluja si rischia una catastrofe umanitaria  

Abitanti di Falluja arrivano in un campo profughi della periferia, il 19 giugno 2016. (Reuters/Contrasto)

La bandiera irachena sventola di nuovo sul municipio di Falluja, nella provincia di Al Anbar. Il 18 giugno, il primo ministro Haider al Abadi ha annunciato la riconquista della città a 65 chilometri da Baghdad, ripresa al gruppo Stato islamico (Is), che la occupava da gennaio 2014.

Dal 23 maggio e dall’inizio dell’offensiva circa 84mila persone sono fuggite dalla città, osserva l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che avverte: “Nei prossimi giorni ci sarà un altro grande esodo, mentre migliaia di persone sono intrappolate a Falluja”.

In questi ultimi tre giorni almeno 30mila persone si sono unite ai profughi accampati alla periferia della città, raddoppiando la popolazione presente in campi già sovraffolati. Il Consiglio norvegese per i profughi (Nrc) ha supplicato il governo di farsi carico della catastrofe umanitaria.

Nuovi profughi

In mancanza di tende i nuovi profughi sono costretti a dormire per terra, riferiscono le organizzazioni non governative, che da settimane denunciano le precarie condizioni di vita di questi campi. In piena estate, con una temperatura superiore a 40 gradi, gli abitanti mangiano solo datteri e bevono l’acqua non potabile del fiume.

Inoltre gli abitanti di Falluja, per lo più sunniti, dopo essere stati usati come scudi umani, devono adesso fare i conti con i maltrattamenti delle milizie sciite, che hanno avuto un ruolo fondamentale nella riconquista della città. Ma nessuno sembra preoccuparsi della possibilità che questi scontri possano trasformarsi in una pulizia etnica.

Queste tensioni favoriscono l’Is. Infatti l’esistenza dell’organizzazione, nonostante le sue perdite umane e territoriali, è tutt’altro che rimessa in discussione, sottolinea il giornalista Jonathan Marcus. E l’instabilità e il caos sono i fattori privilegiati dal gruppo jihadista.

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