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In Sud Sudan torna la minaccia della guerra civile

Giornalisti si stendono a terra nel palazzo presidenziale di Juba, in Sud Sudan, dopo aver sentito colpi d’arma da fuoco, l’8 luglio 2016. (Ap/Ansa)

Avrebbe dovuto essere un giorno di esultanza, come ogni vigilia di festa nazionale. Ma l’8 luglio a Juba, capitale del Sud Sudan, sono scoppiati nuovi scontri. In questo piccolo stato dell’Africa orientale, che il 9 luglio 2011 ha conquistato l’indipendenza dal Sudan, la pace rimane fragile e instabile.

Da una fonte vicina al ministero della sanità, gli scontri fra le truppe governative (fedeli al presidente Salva Kiir Mayardit) e gli ex ribelli (sostenitori del primo vicepresidente, Riek Machar, già allontanato dalle sue funzioni per sospetto tradimento e poi richiamato in carica) avrebbero causato 272 vittime, tra cui 33 civili.

Colpi d’arma da fuoco e sparatorie si sono ripetuti anche il 10 luglio vicino alla sede delle Nazioni Unite, a dimostrazione che l’ombra della guerra civile continua ad aleggiare sul Sud Sudan nonostante l’accordo di pace firmato nell’agosto del 2015.

Dalla metà di dicembre del 2013, il conflitto è costato la vita a quasi cinquantamila persone, mentre un altro milione e mezzo ha dovuto lasciare la propria casa. La situazione è all’origine di una drammatica crisi umanitaria che grava fortemente sullo sviluppo nazionale.

Appelli governativi
Con un gesto distensivo, Salva Kiir e Riek Machar, ieri nemici e oggi diventati alleati per cercare di evitare una nuova guerra, hanno lanciato un appello alla calma, e altrettanto ha fatto l’Onu.

Resta il fatto che il Sud Sudan si trova di fronte a due possibilità: imboccherà la strada già scelta da Nelson Mandela in Sudafrica, quella dell’inclusione e della riconciliazione, oppure quella presa da Mobutu Sese Seko, l’ex dittatore congolese che ha preferito la divisione e l’ostilità?

Per progredire il Sud Sudan ha bisogno di “perdono reciproco”, sostiene Eduardo Hiiboro Kussala, vescovo della diocesi di Tombura-Yambio. Per la popolazione è il momento di dar prova di resistenza, nonostante il timore di una guerra civile.

(Traduzione di Marina Astrologo)

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