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Nelle Filippine, la sanguinosa politica antidroga di Duterte preoccupa l’Onu

Jennelyn Olaires, 26 anni, tiene tra le braccia il suo ragazzo, ucciso per strada da un vigilante a Pasay, il 23 luglio 2016. Accanto al corpo è stato ritrovato un cartello con la scritta “Io sono uno spacciatore”. (Czar Dancel, Reuters/Contrasto)

Conosciuto per la sua poca diplomazia, il presidente filippino Rodrigo Duterte ha attaccato nuovamente le Nazioni Unite che hanno criticato pubblicamente la sua violenta politica antidroga. Il 18 agosto due esperti dell’Onu hanno infatti chiesto al governo filippino di interrompere “l’ondata di esecuzioni e di uccisioni extragiudiziali” e di amministrare la giustizia nei tribunali.

Dopo la sua elezione in maggio, il presidente ha promesso di eliminare dal paese crimini e droga, lanciando una sanguinosa campagna di lotta contro i trafficanti e incitando la popolazione a uccidere direttamente gli spacciatori. Di recente, Duterte ha dichiarato di avere ordinato agli agenti di polizia di sparare per uccidere quando individuano uno spacciatore.

I giustizieri e l’uomo del popolo

In totale più di 1.500 persone sono morte nella lotta antidroga di Duterte, secondo il direttore generale della polizia Ronald de la Rosa, tra cui 665 sospettati uccisi dalle forze dell’ordine e 889 da “giustizieri”. Il capo della polizia è stato di recente sentito nel quadro di un’audizione al senato sull’ondata di uccisioni legate alla droga.

Giocando la carta dell’uomo vicino al popolo, Duterte ha celebrato il 18 agosto il suo cinquantesimo giorno al potere, quasi due mesi contrassegnati da polemiche e controversie politiche. Nel corso della settimana infatti il presidente aveva duramente attaccato le Nazioni Unite che hanno criticato il suo programma antidroga e aveva chiesto all’organizzazione internazionale di occuparsi piuttosto della violenza negli altri paesi. Inoltre ha anche sfidato qualunque ispettore a recarsi sul territorio filippino.

Di recente Duterte ha attaccato anche l’ambasciatore degli Stati Uniti nelle Filippine definendolo un “figlio di puttana”, utilizzando insulti omofobi e dichiarando pubblicamente che gli aveva “rotto le scatole”. Durante la campagna presidenziale, l’ambasciatore aveva più volte criticato le affermazioni molto violente di Duterte sullo stupro e l’uccisione di un’australiana nella città di cui era stato sindaco.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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