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La Turchia è divisa sul referendum per rafforzare il potere di Erdoğan

Rize, Turchia, 3 aprile 2017. (Umit Bektas, Reuters/Contrasto)

La Turchia si pronuncerà il 16 aprile sul rafforzamento dei poteri del presidente Recep Tayyip Erdoğan, nel corso di un referendum il cui esito potrebbe rimodellare il sistema politico del paese e ridefinire le sue relazioni con l’occidente.

Organizzato nove mesi dopo il fallito colpo di stato contro Erdoğan, il referendum, per il quale sono chiamati a esprimersi 55,3 milioni di elettori, riguarda una riforma costituzionale che prevede, in particolare, l’abolizione della carica di primo ministro a favore di un superpresidente che concentrerà nelle sue mani ampie prerogative.

Il governo presenta questa riforma come necessaria per dotare lo stato di un esecutivo stabile e per lasciarsi definitivamente alle spalle i fragili governi di coalizione degli anni ottanta e novanta, prima che salisse al potere il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), la formazione islamista e conservatrice di Erdoğan.

I suoi critici considerano la riforma una nuova deriva autoritaria di un uomo che accusano di mettere a tacere qualsiasi voce dissidente, soprattutto dopo il tentativo di colpo di stato del 15 luglio organizzato da alcuni militari sediziosi.

Il potere a vita
Erdoğan, 63 anni, è stato primo ministro tra il 2003 e il 2014, prima di essere eletto presidente, una carica considerata perlopiù di rappresentanza. Ai sensi della riforma costituzionale potrebbe restare al potere fino al 2029.

Secondo i sondaggi, l’esito del voto si annuncia incerto. Dato per facile vincitore all’indomani del golpe sventato, Erdoğan si presenta al referendum con prospettive che gli appaiono nettamente meno favorevoli, in una Turchia provata da una serie di attentati imputati ai ribelli curdi o al gruppo Stato islamico (Is) e nella quale l’economia, pilastro della sua popolarità, è in difficoltà.

Nella sua ricerca di voti, Erdoğan ha ripetuto che il no favorirebbe i separatisti curdi o il predicatore Fethullah Gülen

Le principali incertezze, per Erdoğan, riguardano il voto dei curdi, un quinto della popolazione e quello della destra nazionalista, il cui capo, Devlet Bahçeli, sostiene la riforma costituzionale ma la cui base è divisa.
“L’esito del voto potrebbe propendere da un lato come dall’altro”, ritiene Asli Aydintasbas, analista presso lo European council on foreign relations.

Nella sua infaticabile ricerca di voti, Erdoğan ha partecipato a decine di comizi nei quattro angoli del paese. Mentre arringava la folla, non ha smesso di ripetere che quanti voteranno no faranno gli interessi dei separatisti curdi del Partito curdo dei lavoratori (Pkk) o di Fethullah Gülen, il predicatore trasferitosi negli Stati Uniti e che Ankara accusa di aver fomentato il fallito colpo di stato.

L’acceleratore sul nazionalismo
Erdoğan, inoltre, per solleticare i sentimenti nazionalisti, ha lanciato invettive contro i paesi europei, in particolare la Germania e i Paesi Bassi, spingendosi al punto di accusarli di “nazismo” e “fascismo” dopo la cancellazione di alcuni meeting dei suoi sostenitori sul loro territorio.

Le uscite di Erdoğan, accolte molto male dai dirigenti europei, hanno spinto il processo di adesione della Turchia all’Unione europea, già in un vicolo cieco, sull’orlo del precipizio. Secondo Marc Pierini, professore ospite presso Carnegie Europe, i dirigenti europei “dovranno prendere una decisione sui futuri rapporti con la Turchia, sia sulla loro forma sia sulla loro sostanza”.

Se la campagna a favore del sì, orchestrata dall’apparato di stato, è stata dominante sul campo e sui mezzi d’informazione, quella per il no è riuscita a mantenersi viva grazie alla mobilitazione dei militanti laici, dei curdi anti-Erdoğan e di una porzione del campo nazionalista.

“Il nuovo sistema darà al presidente turco dei poteri mai visti dopo la fine della presidenza di Ismet Inönü nel 1950”, sostiene Alan Makovsky, del Center for american progress, riferendosi al successore di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia moderna nel 1923.

Demirtaş invita a dire no alla paura
Dopo il fallito colpo di stato del luglio 2015 circa 47mila persone sono state arrestate e più di centomila licenziate o sospese. Decine di testate giornalistiche e associazioni sono state chiuse e decine di giornalisti licenziati o imprigionati.

Le autorità hanno anche condotto una serie di arresti negli ambienti curdi, incarcerando in particolare il capo del Partito democratico dei popoli (Hdp), la principale formazione filocurda del paese, Selahattin Demirtaş, che si oppone al sistema presidenziale. I sostenitori di questo carismatico uomo politico sostengono che il suo arresto abbia permesso a Erdoğan di liberarsi di un oratore capace di tenergli testa durante la campagna.

In un messaggio dal carcere dove è rinchiuso Demirtaş ha accusato l’Akp di creare “un’atmosfera di paura”. “Vi invito a vincere questa paura, andate alle urne e dite no alla paura”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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