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Come funziona la giustizia nell’Egitto di Al Sisi

La madre di Lofty Ibrahim davanti a una foto del figlio nella sua casa a Kafr al Sheikh, Egitto, gennaio 2019. (Reuters/Contrasto)

Nella primavera del 2015 le forze di sicurezza hanno arrestato il giovane muratore Lotfy Ibrahim mentre usciva da una moschea nei pressi della sua abitazione nel delta del Nilo. Quando la sua famiglia è riuscita finalmente a rivederlo, quasi tre mesi dopo, Ibrahim era in carcere e portava segni evidenti di tortura.

“Si è tirato giù le maniche per nascondere i segni”, racconta la madre di Ibrahim, Tahany. “Ma ho visto comunque le bruciature sulle sue braccia. Aveva il volto pallido e i capelli rasati”.

Ibrahim aveva vent’anni. In seguito è stato processato con l’accusa di aver ucciso tre studenti dell’accademia militare con una bomba piazzata sul ciglio di una strada. Ha giurato di essere innocente. La famiglia racconta che l’avvocato di Ibrahim aveva le prove della sua innocenza, sotto forma di confessione da parte dei veri responsabili. Ma anche l’avvocato è stato arrestato e le prove sono state ignorate. Reuters non ha potuto esaminare la confessione.

All’inizio del 2016, quasi un anno dopo l’arresto, un tribunale militare ha condannato a morte Ibrahim. Dalla sua cella, il ragazzo ha scritto una lettera alla famiglia che conteneva anche un messaggio rivolto al padre di uno dei cadetti assassinati.

“Non ho le mani sporche del sangue di suo figlio, e lo sanno tutti”, ha scritto Ibrahim. “Per favore pregate per me. Vi perdono”. La madre di Ibrahim racconta che il ragazzo è stato portato al patibolo subito dopo aver riposto la penna. È stato impiccato nel gennaio del 2018, a pochi mesi dall’arresto del suo avvocato.

Secondo la Rete araba per l’informazione sui diritti umani, un’organizzazione indipendente che documenta le violazioni dei diritti umani in Medio Oriente e Nordafrica, i tribunali egiziani hanno condannato a morte circa tremila persone da quando Abdel Fatah al Sisi è diventato presidente dell’Egitto, nel 2014. Nei sei anni precedenti, secondo Amnesty international, le condanne a morte erano state meno di 800.

Il luogo dell’esplosione dell’autobomba in cui è rimasto ucciso il pubblico ministero Hisham Barakat al Cairo, il 29 giugno 2015.

Molto spesso le condanne vengono annullate in appello. Le statistiche sul numero di esecuzioni sono difficili da reperire, anche perché l’Egitto non pubblica dati ufficiali in merito. I mezzi d’informazione locali forniscono le notizie più dettagliate. Reuters ha esaminato i resoconti pubblicati nell’arco di dieci anni e intervistato gli esperti internazionali di diritti umani. Amnesty international ha condiviso i propri dati. Da questa attività è emerso che dal 2014 al maggio del 2019 sono state eseguite almeno 179 condanne a morte, dieci in più rispetto ai sei anni precedenti.

Inoltre dai dati emerge un aumento nel numero di civili processati dai tribunali militari e quello di condanne a morte emesse da giudici militari. Dal 2015 a oggi, secondo i dati analizzati da Reuters, almeno 33 civili sono stati uccisi dopo una sentenza di un tribunale militare. Non era mai successo tra il 2008 e il 2014.

Tra i crimini per cui è stata sancita la pena capitale ci sono la formazione di organizzazioni terroriste, l’uso di esplosivi e lo stupro.

Il ricorso alle esecuzioni fa parte di una più ampia manovra contro gli islamisti da parte del governo di Al Sisi, un ex generale. Al Sisi è diventato presidente nel 2014, un anno dopo l’intervento dei militari per deporre il primo presidente democraticamente eletto nella storia dell’Egitto, Mohammed Morsi, leader dei Fratelli musulmani, un’organizzazione politica che da allora è stata messa fuorilegge e i cui esponenti sono stati costretti alla clandestinità.

“Sono numeri senza precedenti”, spiega Gamal Eid, fondatore e direttore della Rete araba per le informazioni sui diritti umani. “Si tratta evidentemente di una ritorsione politica”.

Il governo egiziano non ha risposto a una serie di domande inoltrate da Reuters per questo articolo.

L’Egitto ha ribadito più volte la sua determinazione di combattere il terrorismo. A febbraio Al Sisi ha dichiarato ai leader europei che il Medio Oriente e l’Europa avevano “due culture diverse”. In Medio Oriente, secondo Al Sisi, quando i terroristi uccidono, le famiglie delle vittime pretendono il sangue “e questo diritto dev’essere garantito dalla legge”. “La priorità in Europa è ottenere e mantenere il benessere della popolazione. La nostra priorità, invece, è salvaguardare i nostri paesi ed evitarne il collasso”.

Reuters ha parlato con le famiglie di sette ragazzi condannati a morte. I genitori di Ibrahim insistono sul fatto che il ragazzo non faceva parte dei Fratelli musulmani, diversamente dal padre. Tutte le famiglie hanno dichiarato che gli accusati sono stati torturati e non hanno potuto contattare un avvocato. Per settimane, se non addirittura mesi, i parenti non hanno saputo dove fossero detenuti gli arrestati. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani sostengono che molte condanne a morte siano state eseguite dopo processi irregolari. Le autorità egiziane non hanno risposto alle richieste di commento.

Alcune esecuzioni hanno avuto luogo subito dopo un attacco da parte dei militanti islamisti. La tempistica delle esecuzioni “evidenzia una tendenza preoccupante da parte del governo, per cui le esecuzioni appaiono strumenti di vendetta dopo attacchi terroristi e non il prodotto di un sistema giudiziario equo”, spiega Timothy Kaldas, professore dell’Istituto Tahrir di politica mediorientale. Mohamed Zaree, attivista per i diritti umani e direttore dell’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani, un’organizzazione non governativa che produce analisi e ricerche, è convinto che le autorità “sentano la necessità di offrire qualcosa all’opinione pubblica. Vogliono mostrare cadaveri. Non ha importanza se i condannati siano colpevoli o meno”.

Uno degli imputati per l’omicidio del pubblico ministero Hisham Barakat durante il processo al Cairo, giugno 2017.

Ibrahim e altri quattro ragazzi accusati dell’omicidio dei cadetti sono stati impiccati quattro giorni dopo che un esponente del gruppo Stato islamico aveva assaltato una chiesa e un negozio cristiano del Cairo, uccidendo almeno undici persone.

Nell’estate del 2015 Al Sisi ha dichiarato che il codice penale egiziano era inadeguato. Secondo il presidente l’Egitto, minacciato dal terrorismo, avrebbe avuto bisogno di tribunali e leggi capaci di fare rapidamente giustizia. “Non possiamo passare cinque o dieci anni a processare le persone che ci uccidono. Quando viene emessa una condanna a morte, dev’essere eseguita. Cambieremo le leggi”.

Al Sisi ha pronunciato queste parole in occasione del funerale del pubblico ministero Hisham Barakat, ucciso da un’autobomba. In quel caso le autorità avevano immediatamente puntato l’indice contro i Fratelli musulmani e l’organizzazione palestinese Hamas. Nel 2016 il governo ha dichiarato che 14 esponenti dei Fratelli musulmani avevano confessato di aver partecipato all’attentato. I vertici della fratellanza hanno negato qualsiasi ruolo nell’attentato.

La morte di Barakat ha profondamente scosso il governo, anche perché si trattava del più alto funzionario ucciso negli ultimi decenni. Un mese dopo l’attentato, il governo ha introdotto una nuova legge anti terrorismo che prevedeva la pena di morte o l’ergastolo per chiunque fosse coinvolto nella fondazione, nell’organizzazione o nel finanziamento di un gruppo terrorista.

“La tendenza a emanare condanne a morte è cominciata prima della morte del pubblico ministero, ma dopo l’attentato abbiamo assistito a un’escalation”, spiega Mona Seif, cofondatrice di “No ai processi militari”, un’organizzazione indipendente che assiste i civili processati dai tribunali militari. Alla fine del 2016 le esecuzioni si ripetevano quasi mensilmente. Secondo Seif l’obiettivo principale delle autorità era alimentare la paura. “Non ci sono reazioni interne o internazionali per le azioni delle autorità, quindi perché non farlo?”.

Nel 2017 una nuova serie di emendamenti ha concesso ai tribunali il potere di rifiutare alcuni testimoni della difesa e limitare le possibilità di appello. Secondo Amnesty international i cambiamenti hanno “aperto la strada al ricorso massiccio a condanne a morte ed esecuzioni”.

Negli ultimi anni decine di giudici sono stati costretti al pensionamento, allontanati dai tribunali penali o addirittura processati. Ad aprile la costituzione è stata modificata per concedere maggiori poteri ad Al Sisi nella nomina dei giudici e dei pubblici ministeri.

“Il rapporto tra Al Sisi e il sistema giudiziario mi fa pensare a un burattinaio che muove i fili”, spiega l’attivista Zaree. “È così che funzionano i processi in Egitto”.

I familiari degli uomini condannati a morte per l’omicidio di Hisham Barakat al Cairo, febbraio 2019.

Ahmed al Degwy è uno delle decine di studenti arrestati dalle forze di sicurezza nelle settimane successive alla morte di Barakat. Secondo la madre, Ghada Mohamed, lo studente di ingegneria è stato trattenuto senza poter contattare un avvocato, torturato con scariche elettriche e privato dei farmaci per curare il diabete. La donna ammette che il figlio era un sostenitore dei Fratelli musulmani, ma ribadisce che il suo unico legame con Barakat era il fatto che entrambi vivessero nello stesso quartiere del Cairo.

Durante il maxi processo per la morte di Barakat, Mahmoud al Ahmadi, un altro accusato, ha dichiarato che gli imputati erano stati torturati. “Abbiamo subìto fortissime scariche elettriche”, ha raccontato in un video condiviso sui social network. “In corpo avevamo abbastanza elettricità per alimentare l’Egitto per vent’anni”.

Nel 2017 ventotto uomini sono stati condannati a morte per l’omicidio di Barakat, compresi Al Degwy e Al Ahmadi. La corte di cassazione ha confermato le sentenze alla fine del 2018.

A febbraio di quest’anno, due giorni dopo che un attentatore suicida aveva provocato la morte di tre poliziotti al Cairo, le autorità hanno eseguito la condanna di Al Degwy, Al Ahmadi e altre sette persone.

Le famiglie e gli amici dei ragazzi giustiziati hanno cominciato a presentarsi all’obitorio di Zynhom subito dopo la diffusione della notizia. Era presenta anche un giornalista di Reuters. Con il tasbeeh tra le mani, il padre di Al Degwy fissava l’ingresso dell’obitorio. Ai suoi piedi c’era un sudario bianco in cui avrebbe avvolto il corpo del figlio. La sorella di Al Degwy si muoveva a scatti. Gli amici tentavano di consolarla. “Non preoccuparti, ora potrai vederlo”.

Nessuna delle famiglie era stata avvertita prima dell’esecuzione, in violazione delle leggi carcerarie egiziane secondo cui i parenti di un condannato hanno diritto a visitarlo il giorno prima della sua morte.

Secondo una fonte giuridica le autorità temono che i prigionieri possano inviare messaggi attraverso la famiglia. Un agente di polizia dell’obitorio ha ammesso che le autorità non informano preventivamente i parenti “per motivi di sicurezza”.

“Non possiamo comunicare la data dell’esecuzione. Nessuno la conosce, nemmeno i prigionieri. Se la sapessero potrebbero suicidarsi”, ha precisato l’agente. “Qui non tutte le leggi vengono applicate. È una politica statale, al di sopra di me e di voi”.

La madre di Al Degwy ha riferito che la famiglia non vedeva il ragazzo da più di un anno. I parenti non avevano potuto accedere alla struttura dove il giovane si trovava in attesa della sentenza, la famigerata prigione di Tora, a sud del Cairo, conosciuta come “la prigione dello scorpione”.

“Viviamo in un paese in cui gli esseri umani non hanno valore”, ha dichiarato tra le lacrime la madre di Al Degwy . “Questo caos legale e politico sta spingendo il paese in un tunnel senza luce”.

Sparito nel nulla
Le autorità forensi egiziane hanno presentato le prove delle torture subite da un altro sospettato, lo studente Essam Atta, nel corso del processo contro di lui. È stato inutile.

Atta si era presentato alla polizia per essere interrogato in merito all’assassinio di un agente, e suo padre Mohammed aveva portato cibo per tutti gli agenti della stazione di polizia. Atta frequentava il quarto anno del corso di disegno grafico dell’università Ismailia e non aveva alcun interesse politico, racconta Mohammed. Atta aveva rassicurato la famiglia dicendo di non aver fatto nulla di sbagliato. Mohammed, che aveva consigliato ad Atta di presentarsi alla stazione di polizia, era sicuro che il figlio sarebbe rientrato a casa presto.

Quel giorno, però, Mohammed è stato allontanato bruscamente. È tornato il giorno successivo. “Gli agenti continuavano a negare che mio figlio fosse detenuto lì e dicevano di non sapere dove si trovasse”, racconta Mohammed, che però riusciva a sentire le urla del figlio dall’interno dell’edificio. “Ero distrutto, rischiavo di perdere la ragione”.

Sei giorni dopo, Atta e altri sei uomini sono apparsi su un canale televisivo vicino al governo – pieni di lividi, scompigliati e deboli – per ammettere di aver avuto un ruolo nella morte dell’agente. Le famiglie hanno potuto vederli sugli schermi, ma non sapevano dove si trovassero.

Secondo un rapporto dell’autorità forense egiziana, preparato in vista del processo e visionato da Reuters, era “tecnicamente possibile” che Atta e gli altri accusati fossero stati torturati con “ taser e un bastone di bambù o di legno. Alcuni presentavano bruciature da sigaretta”. Il rapporto, di cui fino a quel momento nessuno aveva dato notizia, sosteneva inoltre che gli accusati fossero stati ammanettati per un lungo periodo di tempo.

Un uomo mostra un cartello con una foto del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi nel giorno dei funerali di Hisham Barakat al Cairo, il 30 giugno giugno 2015.

Un altro degli accusati, Hazem Mohamed Salah, si trova attualmente nel braccio della morte del carcere di Al Abadiya, a Damanhur. Il ragazzo ha fatto sapere alla famiglia di essere stato torturato per giorni prima di essere portato nell’ufficio del procuratore. “Gli ha detto di sedersi e gli ha offerto un bicchiere di carcadè, poi gli ha detto di firmare la confessione, senza fargli nemmeno una domanda”, racconta la sorella Dina. Hazem ha bevuto e ha firmato in silenzio.

Un avvocato che segue il caso, Shibl Abou al Mahasen, ha confermato il racconto di Dina.

Sono passati sei anni da allora. Atta, poco più che ventenne, si trova nel braccio della morte. È stato condannato nel 2017. Il verdetto è stato confermato nel novembre del 2018. Secondo un ricercatore di Amnesty international, nel braccio della morte si trovano 61 uomini, in gran parte prigionieri politici.

La famiglia di Atta sostiene che il ragazzo abbia firmato la confessione sotto costrizione e sia stato interrogato senza la presenza di un avvocato.

“Mi pento di averlo spinto a presentarsi”, ammette il padre di Atta, Mohammed. “Ho pensato che in questo paese vigesse lo stato di diritto e che lo avrebbero ascoltato. Invece lo hanno picchiato, torturato e umiliato”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito della Reuters.

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