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Non è saggio aver paura delle nuove tecnologie

Klaus Vedfelt, Getty Images

Più veloce, più economico, più bello: molte persone fanno affidamento sulla tecnologia per offrire una visione di un futuro migliore. Ma giunti agli anni venti di questo secolo, siamo già a corto di ottimismo. Le nuove tecnologie che hanno dominato l’ultimo decennio sembrano peggiorare le cose. I social network avrebbero dovuto avvicinare le persone. Durante la primavera araba del 2011 sono stati accolti come una forza liberatrice. Oggi sono noti soprattutto per la loro opera d’invasione della privacy, di diffusione di propaganda e d’indebolimento della democrazia. L’ecommerce, i servizi di condivisione, la gig economy sono forse economicamente convenienti, ma sono accusati di sottopagare i lavoratori, inasprire le disuguaglianze e di riempire le strade di veicoli. E i genitori temono che gli smartphone abbiano trasformato i loro bambini in zombi dipendenti dagli schermi.

Anche le tecnologie che dovrebbero dominare il nuovo decennio sembrano proiettare un’ombra oscura. L’intelligenza artificiale rischia di rafforzare pregiudizi e faziosità, di minacciare i nostri posti di lavoro e di favorire i regimi autoritari. Il 5g è al cuore della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti. Le automobili senza conducente ancora non funzionano, ma possono comunque uccidere le persone. I sondaggi mostrano che la fiducia verso le aziende di internet è ancora più bassa di quella verso il settore bancario. Proprio mentre le banche si sforzano di presentarsi come aziende tecnologiche, i giganti di internet sono diventati le nuove banche, trasformandosi da calamite per talenti a reietti. Anche i loro dipendenti sono in rivolta.

È il New York Times a sintetizzare questo crescente disagio. “Un senso di pessimismo”, scrive, ha sostituito “l’idea d’inevitabile progresso nato dalla rivoluzione scientifica e da quella industriale”. Peccato che queste parole appaiano in un articolo pubblicato nel 1979. Allora il quotidiano sosteneva che l’ansia era “nutrita da dubbi crescenti sulla capacità della società a contenere le forze apparentemente incontrollabili della tecnologia”. Le inquietudini odierne si concentrano sugli smartphone e i social network, che si sono diffusi un decennio fa. Eppure la preoccupazione che l’umanità abbia imboccato una strada tecnologica sbagliata, o che alcune specifiche tecnologie procurino più danni che vantaggi, sono sorte anche in passato.

Stato d’ansia
Negli anni settanta lo scoraggiamento nasceva dalle preoccupazioni per la sovrappopolazione, per i danni all’ambiente e per la prospettiva di un olocausto nucleare. Agli anni venti del novecento risale una rivolta contro le automobili, in precedenza considerate come una risposta miracolosa ai problemi dei veicoli trainati da cavalli, che riempivano le strade di rumore ed escrementi, alimentando traffico e incidenti. E le piaghe dell’industrializzazione furono denunciate nel diciannovesimo secolo da luddisti, romantici e socialisti, che si preoccupavano (a ragione) dell’allontanamento degli artigiani qualificati, della devastazione delle campagne e della sofferenza delle mani operaie che faticavano in stabilimenti pieni di fumo. Facendo un passo indietro, ci si accorge che in ognuno di questi casi storici la delusione derivava da un misto di speranze non realizzate e conseguenze non previste. L’ansia era quindi un risultato assolutamente comprensibile.

Gli svantaggi di ogni tecnologia sembrano a volte superarne i vantaggi. Quando questo accade per più tecnologie alla volta, come oggi, il risultato è un diffuso senso di tecno-pessimismo. Tuttavia tale pessimismo potrebbe essere eccessivo. Troppo spesso le persone si concentrano sugli svantaggi di una nuova tecnologia dandone troppo per scontati i benefici. Le preoccupazioni relative al troppo tempo trascorso di fronte a uno schermo andrebbero soppesate con i ben più solidi vantaggi della comunicazione sempre possibile e dell’accesso istantaneo all’informazione e all’intrattenimento reso possibile dagli smartphone. Un altro pericolo è che i tentativi dei luddisti di evitare gli svantaggi a breve termine associati a una nuova tecnologia finiscano per impedire l’accesso a quelli a lungo termine: un fenomeno che Carl Benedikt Frey, un professore di Oxford, definisce una “trappola tecnologica”. Il timore che i robot sottraggano posti di lavoro alle persone potrebbe spingere i politici, per esempio, a tassarli per scoraggiarne l’uso. Tuttavia nel lungo periodo i paesi che desiderino mantenere i loro standard di vita, nonostante l’invecchiamento e la riduzione della loro popolazione, avranno bisogno di un numero maggiore, e non minore, di robot.

La tecnologia in sé non ha alcun potere decisionale: sono le scelte delle persone a dare forma al mondo

Questo ci porta a un’altra lezione, e cioè che il rimedio ai problemi legati alla tecnologia molto spesso implica più tecnologia. Gli airbag e altri miglioramenti alla sicurezza, per esempio, hanno fatto calare le morti in incidenti stradali negli Stati Uniti da circa 240 ogni miliardo e mezzo di chilometri percorsi, un dato degli anni venti, alle circa 12 di oggi. L’intelligenza artificiale è ampiamente utilizzata nel tentativo di tamponare il flusso di materiale estremista sui social network. L’esempio lampante sono i cambiamenti climatici. È difficile immaginare una qualsiasi soluzione che non dipenda in parte dalle innovazioni nel campo dell’energia pulita, della cattura dell’anidride carbonica e dello stoccaggio dell’energia.

La lezione più importante riguarda la tecnologia in generale. Una tecnologia potente può essere usata per scopi positivi o negativi. Internet diffonde conoscenza, ma è anche il luogo nel quale filmati di persone decapitate diventano virali. La biotecnologia aumenta il rendimento dei raccolti e la cura delle malattie, ma può portare al contempo ad armi letali.

La tecnologia in sé non ha alcun potere decisionale: sono le scelte delle persone a dare forma al mondo. E quindi la rivolta contro la tecnologia è un passo necessario nell’adozione di nuove e importanti tecnologie. Nella sua versione migliore, contribuisce a definire in che modo la società riesce ad accettare le innovazioni e imporre regole e politiche che riescano a limitarne il potere di distruzione (cinture di sicurezza, convertitore catalitico e regolamenti stradali), a favorire il cambiamento (l’istruzione universale come risposta all’industrializzazione) o a trovare un compromesso (tra la convenienza dei servizi di condivisione corse e la protezione dei lavoratori della gig economy). Un sano scetticismo implica che queste domande sono poste da un ampio dibattito non da un gruppetto di esperti di tecnologia.

Forse la vera fonte di ansia non è la tecnologia stessa, ma i crescenti dubbi sulla capacità della società a tenere un simile dibattito e a trovare delle risposte adatte. In questo senso il tecno-pessimismo è un sintomo di pessimismo politico. Eppure c’è qualcosa di perversamente rassicurante in questo: un dibattito pessimistico è meglio di nessun dibattito. E la storia induce ancora, in generale, all’ottimismo.

Le trasformazioni tecnologiche, dalla rivoluzione industriale in poi, hanno contribuito a fiaccare mali antichi, come mortalità infantile, fame e ignoranza. Certo, il pianeta si sta riscaldando e la resistenza agli antibiotici si diffonde. Ma la soluzione a tali problemi impone un ricorso maggiore, non minore, alla tecnologia. E così, ora che il decennio si è concluso, lasciamo per un attimo da parte il pessimismo. Vivere in un’epoca ossessionata dalla tecnologia, come gli anni venti del duemila, significa essere tra le persone più fortunate che abbiano mai vissuto.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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