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Il Venezuela distrugge le sue foreste

Una miniera d’oro vicino al parco nazionale Canaima, in Venezuela, 14 maggio 2019. (Michael Robinson Chavez, The Washington Post/Getty Images)

Mentre il volo bisettimanale da Caracas scende verso il parco nazionale Canaima, nello stato di Bolívar, gli assistenti di volo invitano i passeggeri a guardare dai finestrini del lato sinistro per ammirare il panorama. Enormi montagne dalla sommità piatta, vecchie di almeno 500 milioni di anni, emergono dalla foschia come un antico passaggio verso un altro mondo. Tutto appare immacolato, non violato dall’umanità. Guardando dal lato opposto, invece, lo scenario è molto più desolante: la foresta è costellata di aree disboscate di fango e sabbia, segno della distruzione causata dalle miniere d’oro illegali. Invece di provare a fermare questa catastrofe ambientale, il governo del Venezuela la sta incoraggiando.

Un tempo il Venezuela era famoso per la sua vegetazione. Nel 1977 il paese fu il primo dell’America Latina a creare un ministero dell’ambiente. Grandi aree furono dichiarate parco nazionale e furono approvate leggi per la tutela della fauna selvatica. Canaima, un parco protetto fin dagli anni sessanta, diventò il gioiello più prezioso della corona. In quel periodo la compagnia petrolifera statale, la Pdvsa, era ben amministrata e forniva al governo così tanti soldi che non c’era bisogno di abbattere le foreste.

Corsa sfrenata
Ma oggi il governo autoritario di Nicolás Maduro ha un piano diverso. L’amministrazione è corrotta e priva di risorse e, a causa della cattiva gestione e delle sanzioni economiche, la Pdvsa è in grande difficoltà. Maduro sta cercando disperatamente nuove fonti di introiti. Dall’Amazzonia ai Caraibi, il governo ha permesso una corsa sfrenata all’estrazione di minerali.

Il processo è cominciato nel 2016, quando il prezzo del petrolio era bassissimo. Maduro annunciò che un territorio a forma di mezzaluna, grande tre volte la Svizzera e situato nel Venezuela del sud, sarebbe stato assegnato alle aziende minerarie. Lo chiamò arco minero, arco minerario. Lo scopo dell’iniziativa era attirare investimenti per l’estrazione dell’oro, del ferro, del cobalto, della bauxite, della tantalite, dei diamanti e di altri minerali.

Nel 2016 l’ong Global initiative ha ipotizzato che addirittura il 91 per cento dell’oro venezuelano fosse prodotto illegalmente

Dopo la vittoria di Maduro alle elezioni del 2019 gli Stati Uniti, che consideravano le elezioni irregolari, hanno imposto una serie di sanzioni contro la Pdvsa. L’economia del Venezuela era già in crisi, ma da quel momento la necessità di contante è cresciuta esponenzialmente. “Abbiamo dovuto imparare in fretta a dipendere meno dal petrolio e a cercare l’oro vero”, spiega un dirigente d’azienda di Caracas.

Da allora sono stati firmati alcuni accordi legittimi con società cinesi, canadesi e congolesi, ma nessuno è sfociato in progetti significativi. D’altronde gli investimenti a lungo termine in un paese gestito da un governo così predatorio non sono particolarmente allettanti. E così nell’arco minerario è cominciata una corsa all’oro gestita dalla torbida alleanza tra narcotrafficanti, generali, bande di criminali e guerriglieri colombiani, mentre il governo ha assorbito buona parte dei profitti.

Una scelta obbligata
Nel 2016 l’ong Global initiative ha ipotizzato che addirittura il 91 per cento dell’oro venezuelano fosse prodotto illegalmente. Da quando Maduro ha creato l’arco minerario questa percentuale è probabilmente aumentata. Un’indagine condotta lo scorso gennaio dal sito venezuelano indipendente Armando.info insieme al quotidiano spagnolo El País ha rivelato che i due stati con la maggiore attività mineraria, Bolívar e Amazonas, ospitano almeno 42 piste aeree clandestine per il contrabbando dell’oro. L’estrazione illegale è estremamente allettante per molti venezuelani, anche perché le alternative scarseggiano.

Durante il governo di Maduro gli stipendi sono crollati: oggi i dipendenti statali guadagnano meno di dieci dollari al mese. Decine di migliaia di persone, soprattutto uomini, si sono trasferite a Canaima per cercare fortuna come minatori improvvisati. I turisti hanno paura di visitare il Venezuela, e le guide native del parco, che un tempo li accompagnavano, non hanno altra scelta a parte quella di scavare.

Gli alberi sono stati abbattuti per far posto agli scavi. Secondo i dati dell’organizzazione ambientalista Global forest watch, tra il 2002 e il 2020 il Venezuela ha perso 533mila ettari di foresta pluviale vergine, cioè l’1,4 per cento del totale. “L’attività mineraria è fuori controllo”, afferma l’ambientalista Alejandro Álvarez Iragorry. Oggi il Venezuela è il primo paese dell’Amazzonia per l’attività mineraria illegale. Nel 2019 l’organizzazione Red amazónica de información socioambiental georreferenciada ha contato 1.899 operazioni estrattive nella parte venezuelana del bacino dell’Amazzonia. Nell’Amazzonia brasiliana, un territorio dieci volte più grande, le operazioni erano appena 321.

Nel 2011 il governo ha smesso di pubblicare le statistiche ambientali. Da allora la reale portata dall’inquinamento idrico e della deforestazione può solo essere ipotizzata

I minatori inquinano l’acqua locale usando il mercurio per separare l’oro dai minerali grezzi, e gli scarti invisibili finiscono nei fiumi. Livelli pericolosamente alti di mercurio sono stati registrati nei capelli prelevati dai nativi che si lavano e bevono nei fiumi locali. Secondo l’organizzazione ambientalista Sos Orinoco nel 2021 più di un terzo dei componenti dei pemón sottoposti ad analisi a Canaima aveva livelli di mercurio superiori alla soglia di sicurezza fissata dall’Organizzazione mondiale della sanità. L’avvelenamento da mercurio aumenta la possibilità che le donne partoriscano bambini affetti da danni cerebrali.

Senza dati
Anche l’azienda petrolifera statale produce danni all’ambiente. Durante i governi di Hugo Chávez, predecessore di Maduro, migliaia di dipendenti furono licenziati e sostituti da persone fedeli al governo. Da allora la compagnia è diventata meno efficiente. Importanti competenze sono andate perse e oggi le infrastrutture sono in pessimo stato. Secondo l’organizzazione Observatorio de ecología política, ogni mese in Venezuela ci sono 5,8 perdite accidentali di petrolio.

Nel lago Maracaibo, dove negli anni venti del novecento avvennero le prime scoperte dei grandi giacimenti di petrolio, la popolazione locale sostiene che le perdite sono costanti dal 2015. L’inquinamento agricolo ha peggiorato la situazione. Oggi gran parte dell’enorme lago è coperta da un putrido tappeto di alghe. Il governo accusa gli ambientalisti di ingigantire il problema e ostacola la loro attività. Nel 2020, dopo una fuoriuscita nel parco nazionale Morrocoy, nel nordovest, gli scienziati non hanno potuto valutare i danni al fondo marino perché la Pdvsa gli ha impedito di accedere all’area dell’incidente.

Nel 2011 il governo ha smesso di pubblicare le statistiche ambientali. Da allora la reale portata dall’inquinamento idrico e della deforestazione può solo essere ipotizzata. Le stazioni meteorologiche posizionate con grande sforzo economico negli anni settanta sulle vette delle montagne del parco di Canaima sono abbandonate. Nel 2014 il ministero dell’ambiente è stato ribattezzato ministero dell’ecosocialismo. “Il governo è giustamente orgoglioso della bellezza del paese, ma sembra che non senta il dovere di proteggerlo”, ha ammesso un diplomatico.

A ottobre Maduro ha annunciato un piano per costruire una città “condivisa” nel parco nazionale di Avila, una splendida montagna affacciata su Caracas e protetta dall’attività edilizia fin dal 1958. Secondo una teoria, Maduro, che ha espresso un certo interesse verso il misticismo indiano, vorrebbe costruire qualcosa di simile ad Auroville, una città indiana edificata negli anni sessanta dai seguaci di un guru per “realizzare l’unità umana”.

Ma c’è un’altra area del paese, un tempo incontaminata, dove i minatori sono già all’opera. A Gran Roque, la più grande isola dell’arcipelago di Los Roques, vicino a una barriera corallina unica, sono in costruzione ville e alberghi. L’operazione sembra violare i decreti approvati dal governo a partire dal 2004 per vietare ogni attività edilizia. Gli esperti temono che il progetto possa alterare il delicato equilibrio ambientale in un’area famosa per la sua fauna selvatica, di cui fa parte una specie di tartarughe a rischio di estinzione.

I nomi degli investitori nel progetto non sono noti, ma secondo gli abitanti della zona il proprietario di una delle ville più grandi è un funzionario governativo di alto rango. Spazzare via la natura per costruire ville di lusso non è esattamente la definizione di “ecosocialismo”. Ma il mondo di Maduro, in Venezuela, è impazzito.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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