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Il rincaro delle materie prime apre una nuova epoca di crisi economica

Colombo, Sri Lanka, 23 aprile 2022. Un uomo passa vicino all’accampamento dei manifestanti. (Buddhika Weerasinghe, Getty Images)

Di Shawn Donnan, Eric Martin, Andrew Rosati e Jihen Laghmari

Per le economie dei paesi emergenti si prepara una raffica di shock mai vista dagli anni novanta, quando una serie di crisi a catena aveva affondato economie e fatto cadere governi. I disordini scatenati dall’aumento dei prezzi di generi alimentari ed energia stanno già colpendo paesi come Sri Lanka, Egitto, Tunisia e Perù. E ora potrebbero trasformarsi in una crisi del debito più ampia, oltre che in una nuova minaccia in grado di compromettere la fragile ripresa dell’economia mondiale dopo la pandemia.

Ad aggravare il rischio c’è la campagna monetaria più aggressiva che la Federal reserve degli Stati Uniti abbia mai intrapreso in vent’anni. L’aumento dei tassi d’interesse statunitensi, infatti, comporta un significativo aumento dei costi di servizio del debito per le economie in via di sviluppo – che da poco hanno preso in prestito miliardi di dollari per affrontare l’emergenza del covid-19 – e tende a stimolare l’uscita di flussi di capitale. Come se non bastasse, l’altra cruda realtà – la guerra in Europa – causa il recente shock alimentare ed energetico e non dà segni di concludersi a breve.

Questo insieme di rischi ha già spinto lo Sri Lanka sull’orlo dell’impossibilità di ripagare le sue obbligazioni. Altre economie emergenti – come Pakistan, Tunisia, Etiopia e Ghana – rischiano di seguire presto questo esempio. Naturalmente gli esportatori di materie prime dei paesi meno industrializzati beneficiano dell’aumento dei prezzi. Ma ci sono altri problemi in arrivo, come la nuova ondata di covid-19 che blocca le città più importanti della Cina e la crescente preoccupazione che Europa e Stati Uniti entrino in recessione.

Onde sismiche
I responsabili della politica economica mondiale stanno suonando il campanello d’allarme. I temi dominanti alle riunioni primaverili del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca mondiale a Washington sono il rallentamento dell’economia globale e i rischi crescenti – visibili e non – con cui stanno facendo i conti i paesi del sud del mondo.

L’Fmi, nel suo ultimo rapporto semestrale, World economic outlook, ha paragonato l’impatto della guerra a delle “onde sismiche” che attraversano l’economia globale. Ha anche avvertito del possibile ritorno, per i mercati emergenti, di quel genere di circolo vizioso che aveva portato la Russia alla bancarotta nel 1998, contribuendo all’ascesa al potere di Vladimir Putin, e aveva portato il fondo speculativo Long term capital management (Ltcm) sull’orlo del collasso. La Banca mondiale ha ridimensionato le sue stime di crescita globale e per le nazioni colpite dalla crisi ha annunciato la creazione di un pacchetto di salvataggio da 170 miliardi di dollari (più denaro di quanto aveva stanziato per rispondere alla pandemia).

“Vediamo un treno in corsa che sta per abbattersi su di noi”, ha detto John Lipsky, che per cinque anni è stato numero due dell’Fmi. La combinazione di scossa dell’economia reale e stretta del mercato finanziario, ha detto, “spingerà tanti paesi a basso reddito verso la necessità di una ristrutturazione del debito”.

La più grave insolvenza all’orizzonte tra le economie emergenti è quella della Russia, dove la decisione di Putin di invadere l’Ucraina ha portato sanzioni, isolamento economico e la promessa di pagare i debiti solo in rubli: un fatto che sarebbe probabilmente giudicato una violazione degli impegni presi e che innescherebbe nuove perdite per gli investitori.

Il ruolo della Russia come paese aggressore colpito dalle sanzioni è un caso unico. Il che significa che lo Sri Lanka, per ora, è sulla linea del fronte di una crisi potenzialmente più ampia. La valuta del paese asiatico ha perso quasi il 40 per cento quest’anno. Il governo ha sospeso i pagamenti del debito estero, decidendo di usare ciò che resta delle sue riserve per coprire le importazioni di cibo ed energia piuttosto che pagare gli investitori.

La Turchia e l’Egitto secondo gli analisti sono in cima alla lista dei mercati emergenti più esposti alle ricadute della guerra in Ucraina

Per persone come Jagath Gunasena la crisi è già arrivata e ha costretto sua moglie e suo figlio a stare in fila per ore per riempire la bombola di gas da cucina di cui hanno bisogno per gestire la loro bancarella di cibo a Colombo, salvo poi tornare indietro a mani vuote perché le scorte erano esaurite. “Almeno noi possiamo mangiare gli avanzi della nostra bancarella”, ha raccontato Gunasena. “Non so come faranno gli altri a cucinare o a tirare avanti”.

Questo tipo di incertezza ha spinto i manifestanti a chiedere le dimissioni del presidente Gotabaya Rajapaksa, nonostante il suo governo stia cercando di negoziare un piano di aiuti con l’Fmi e con potenze asiatiche come la Cina e l’India.

Lo Sri Lanka è forse il primo della lista. Ma tredici altri paesi emergenti hanno obbligazioni che scambiano ad almeno mille punti base in più rispetto ai titoli del tesoro degli Stati Uniti: un anno fa la differenza era di solo sei punti. Il credit-default swap (uno strumento finanziario derivato che serve a proteggere i creditori dal rischio di default) sul debito dei paesi in via di sviluppo ha avuto un’impennata nelle prime settimane della guerra in Ucraina, a dimostrazione della crescente paura d’insolvenza statale. Anche se da allora il valore è sceso, rimane ancora circa novanta punti base sopra alla media dell’anno scorso.

Bloomberg Economics, che compila schede di valutazione dei rischi strutturali dei mercati emergenti, mette la Turchia e l’Egitto in cima alla lista dei principali mercati emergenti esposti a “ricadute economiche e finanziarie” legate alla guerra in Ucraina. E inserisce Tunisia, Etiopia, Pakistan, Ghana ed El Salvador, tutti paesi molto esposti e con oneri finanziari cresciuti di oltre settecento punti base dal 2019, tra le economie con un rischio immediato di non poter rimborsare i propri debiti.

Effetto domino
L’impatto diretto dell’insolvenza di cinque paesi di queste dimensioni non avrebbe conseguenze di rilievo sull’economia globale. Ma le crisi nei paesi meno industrializzati si allargano tradizionalmente ben oltre il loro epicentro. “Se ci fosse una cascata di problemi creditizi nei mercati emergenti, l’impatto negativo nel suo insieme potrebbe essere molto più consistente della somma delle parti”, ha scritto Ziad Daoud, responsabile della redazione economia per i paesi emergenti di Bloomberg Economics.

La Banca mondiale calcola che il 60 per cento dei paesi a basso reddito sia già in difficoltà per le conseguenze del debito, o comunque ad alto rischio per questo motivo. Finora i problemi stanno nascendo in quei luoghi “lontani dai radar” a cui gli investitori non prestano molta attenzione, ha detto la capoeconomista dell’istituto finanziario, Carmen Reinhart.

Questo non significa che la situazione rimarrà così. Reinhart ha citato l’esempio del fondo speculativo Ltcm, salvato dalla Federal reserve nel 1998 dopo le perdite registrate in Russia e in altri mercati emergenti. “Quell’evento non era stato necessariamente previsto dagli analisti”, ha spiegato. “Ma cose simili stanno cominciando a emergere. Le esposizioni sono opache”.

I governi di tutto il mondo emergente hanno preso più denaro in prestito per attutire l’impatto della pandemia. E il costo degli interessi di quei debiti si sta impennando, secondo l’Fmi.

Una quantità record di quel debito è ora nei bilanci delle banche locali nelle economie emergenti, secondo l’Fmi, e questo aumenta il rischio di innescare un ciclo di retroazione nel quale le banche sono costrette a diminuire i prestiti mentre le economie rallentano, facendo così calare il valore dei titoli di stato che possiedono. Il che, a sua volta, potrebbe provocare quel genere di circolo vizioso economico che portò la Russia all’insolvenza nel 1998 e l’Argentina verso lo stesso destino pochi anni dopo.

L’elenco si allunga
È probabile che l’aumento degli oneri finanziari legati ai prestiti si impenni ulteriormente, mano a mano che gli sforzi della Federal reserve per combattere l’inflazione negli Stati Uniti porteranno a tassi di interesse più alti sui titoli del tesoro statunitensi, che sono il metro di riferimento per molte economie in via di sviluppo. Mentre i prezzi continuano a crescere, anche le banche centrali di gran parte del mondo meno industrializzato stanno aumentando i loro tassi di interesse.

Secondo Jim O’Neill, l’ex economista di Goldman Sachs che ha coniato l’espressione Brics, l’acronimo utilizzato nei primi anni duemila per descrivere i mercati emergenti e in rapida crescita di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, il panorama attuale è il più incerto che ha visto da quando ha cominciato la sua carriera nella finanza nei primi anni ottanta. “Se il rischio di inflazione continuerà e le banche centrali saranno costrette ad applicare politiche restrittive, per alcuni mercati emergenti sarà un disastro”, ha detto.

Un segno dei problemi che ci aspettano è l’allungamento dell’elenco di paesi che hanno intavolato trattative di salvataggio con l’Fmi. Oltre allo Sri Lanka, ci sono paesi con simili problemi di bilancia dei pagamenti come l’Egitto e la Tunisia, dove proprio l’aumento dei prezzi degli alimenti contribuì ai cambi di regime appena un decennio fa.

Molti paesi in via di sviluppo vendono più materie prime di quelle che comprano, e quindi beneficiano dell’aumento dei prezzi

E poi c’è il Pakistan, dove l’alta inflazione e le tensioni geopolitiche hanno fatto cadere il primo ministro Imran Khan ad aprile, e il governo sta tagliando l’elettricità alle famiglie e alle aziende perché non può permettersi di comprare carbone o gas naturale dall’estero per alimentare le sue centrali elettriche.

In Tunisia, la culla delle rivolte che hanno dato il via alle primavere arabe nel 2011, un governo a corto di denaro ha quadruplicato i prezzi del carburante negli ultimi tredici mesi. Il turismo si è prosciugato, e la carenza di beni sta diventando così acuta che i venditori al mercato scherzano sul fatto che sia più facile comprare la cannabis rispetto alla farina.

Raed, un panettiere di 26 anni, ha detto che non riesce a trovare abbastanza farina necessaria per tenere aperto il suo negozio nemmeno sul mercato nero, dove viene venduta a prezzi molto superiori a quelli ufficiali sovvenzionati dallo stato. “La situazione è molto brutta”. E così ha deciso che, quando sarà finito il mese sacro di Ramadan, si unirà alle legioni di migranti che cercano fortuna altrove.

Nel vicino Egitto, il più grande importatore di grano al mondo, la scomparsa delle forniture provenienti da Russia e Ucraina è stato un duro colpo. Il mese scorso, la banca centrale ha lasciato che la valuta crollasse di oltre il 15 per cento in poche ore e ha aumentato il suo tasso di riferimento per la prima volta in cinque anni. Il tutto mentre è in corso un’uscita di valuta forte dalle casse del paese e il presidente Abdel Fattah Al Sisi ha esortato la gente ad accontentarsi di pasti meno elaborati quando rompono il digiuno del Ramadan. Il governo “ci sta chiedendo di razionare il nostro consumo, ma lo stiamo già facendo”, ha detto Ezzat Mohamed, che vive nella provincia rurale di Qalyubiya, dove i negozi hanno cominciato a offrire cibo a credito.

Naturalmente molti paesi in via di sviluppo vendono più materie prime di quelle che comprano, e quindi beneficiano dell’aumento dei prezzi in corso. La cosa si rivela particolarmente vantaggiosa in regioni come l’America Latina, per esempio. Quest’anno il real del Brasile è la più performante tra le principali valute del mondo, mentre a marzo, in Cile, le esportazioni sono cresciute di oltre il 20 per cento rispetto all’anno precedente.

Scheletri nell’armadio
Robin Brooks, capo economista dell’Istituto per la finanza internazionale, prevede che le conseguenze della guerra in Ucraina saranno in gran parte limitate ai paesi importatori di cibo ed energia.

Dopo i boom economici spesso segue una catena di crolli. E non ce ne sono stati molti tra i paesi emergenti messi a dura prova dal covid-19, fa notare Brooks. Al contrario, le crisi degli anni novanta erano scoppiate in economie inondate dal capitale, e l’improvvisa scomparsa di credito aveva rivelato le falle nei bilanci aziendali. Nonostante l’aumento di rischi legati a una politica sempre più aggressiva della Federal reserve, “non sono preoccupato come altri per gli scheletri nell’armadio”, ha detto.

Ma se questo scenario pandemico lascia i paesi emergenti meno vulnerabili alle fughe di capitale, è vero il contrario per quanto riguarda le tensioni sociali. E questo è uno dei motivi per i quali è difficile non vedere qualcosa di più ampio nelle turbolenze politiche ed economiche che cominciano a colpire gli angoli più poveri dell’economia globale. Oxfam avverte che quest’anno più di 250 milioni di persone potrebbero essere spinte verso la povertà estrema.

Gli esportatori di materie prime dell’America Latina non sono immuni ai disordini politici – il Perù, uno dei paesi con i più alti tassi di morte per covid al mondo, è stato scosso da settimane di proteste violente – o anche a un indebolimento della loro posizione internazionale.

La bilancia commerciale delle partite correnti del Perù è passata da un surplus dello 0,8 per cento del prodotto interno lordo a fine 2020, a un disavanzo del 2,8 per cento l’anno successivo. Nella vicina Colombia e in Cile il disavanzo si è ampliato a circa il 6 e al 7 per cento del pil, rispettivamente, nell’ultimo trimestre dello scorso anno.

Inoltre sono gli investitori stranieri a possedere la gran parte del debito sovrano di questi paesi, che è aumentato di dieci-quindici punti percentuali del pil negli ultimi due anni, ha sottolineato il centro di analisi Gavekal in una recente nota. “I prezzi dei beni nei mercati emergenti, compresi quelli degli esportatori di materie prime, potrebbero essere molto più vulnerabili alle oscillazioni dell’ambiente esterno di quanto non ritengano attualmente gli investitori”, hanno scritto gli economisti del centro ricerche.

In Brasile, a meno di sei mesi dalle elezioni presidenziali, i sondaggi mostrano che il 75 per cento della popolazione incolpa il governo del presidente Jair Bolsonaro per l’aumento del costo della vita. Anche se la banca centrale del paese è da mesi impegnata in una decisa stretta, il tasso di inflazione del Brasile lo scorso marzo era ancora all’11,3 per cento. Il problema è che, come in molte parti del mondo, i prezzi si alimentano a vicenda e l’aumento del costo del carburante rende anche il cibo più costoso, ha detto Thais Zara, economista della società di consulenza Lca Consultores di São Paulo.

Bolsonaro sta usando i ricchi proventi delle materie prime per aumentare gli aiuti in denaro ai poveri prima delle elezioni, e ha immesso 32 miliardi di dollari di credito nell’economia. Ma nei mercati di Rio de Janeiro l’ansia per quel che succederà resta tangibile. Maria Conceição ha fatto scorta di pesce per la sua famiglia in vista delle celebrazioni del fine settimana di Pasqua. “Festeggeremo con il pesce ora, ma ne avremo meno dopo”, ha detto. Perché per Conceição, come per milioni di altri cittadini dei paesi in via di sviluppo, la triste realtà è che “ogni mese le cose peggiorano”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul sito di Bloomberg.

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