×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La crescita inarrestabile dell’apparato di polizia egiziano

Il Cairo, 25 gennaio 2016. La polizia schierata a piazza Tahrir nel quinto anniversario delle rivolte del 2011. (Mohamed El Shahed, Afp)

Il regime egiziano poggia essenzialmente su una relazione privilegiata tra politici, militari e forze dell’ordine, un rapporto che ha sempre evidenziato il ruolo fondamentale dell’esercito e della polizia nella sopravvivenza dei governi che si sono alternati alla guida del paese.

Tuttavia nel corso degli anni i militari hanno subìto l’avanzata della polizia, che ha progressivamente assunto il controllo di interi settori della società. “Dopo Nasser la polizia è diventata gradualmente il principale contropotere al servizio dei presidenti egiziani”, spiega il ricercatore Baudouin Long. Strumento privilegiato del regime di Mubarak, le strutture dello stato di polizia hanno saputo resistere alla caduta del generale e al processo di transizione avviato dopo la rivoluzione del 2011. Questa continuità successiva al momento rivoluzionario è stata favorita da un arsenale giuridico, politico e amministrativo la cui matrice cancella qualsiasi possibilità di creare un’opposizione strutturata.

Abdel Fattah al Sisi ha conquistato il potere dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013 con cui ha rovesciato Mohamed Morsi, primo presidente nella storia egiziana a essere eletto democraticamente. Immediatamente il nuovo regime ha impartito l’ordine di sgomberare gli accampamenti dei manifestanti in piazza Rabâa Al Adaouia, al Cairo. Le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco massacrando seicento manifestanti secondo le fonti ufficiali (più di mille secondo le organizzazioni umanitarie internazionali).

Opacità rafforzata
Al Sisi ha seguito il solco dei regimi autoritari precedenti. Per impedire alla contestazione di prendere forma, le manifestazioni sono state limitate attraverso provvedimenti giuridici. Il 24 novembre 2013 la legge sulle manifestazioni ha instaurato una procedura amministrativa vincolante che prevedeva la necessità di ottenere un permesso da parte del ministero dell’interno. Portare a termine l’iter burocratico era quasi impossibile, anche perché la nuova legge imponeva di comunicare in anticipo perfino gli slogan. Le manifestazioni sono state vietate nella maggior parte dei luoghi pubblici e al contempo le forze di polizia sono state autorizzate a usare armi letali contro i manifestanti.

Nel settembre 2016 Al Sisi ha approvato una legge che avrebbe dovuto inasprire le sanzioni contro i poliziotti colpevoli di abusi, ma in realtà ha rafforzato l’opacità dei metodi della polizia, vietando per esempio agli agenti di rilasciare dichiarazioni ai mezzi d’informazione o di formare sindacati.

Dal 2018 il governo controlla i siti d’informazione con più di cinquemila utenti

Oggi gli spazi pubblici non sono più gli unici bersagli del regime. Nell’epoca dei social network come strumento di azione militante, il controllo e la sorveglianza del web sono fondamentali. Il collettivo Netblocks elenca i siti internet bloccati dai provider egiziani per imbavagliare l’opposizione: sarebbero circa 34mila. Tra i siti bloccati ci sono quelli delle organizzazioni non governative o dei mezzi d’informazione. Il 24 novembre 2019 i locali del sito d’informazione indipendente Mada Masr (una delle poche piattaforme di informazione libera sopravvissute, partner di Orient XXI nella rete Médias indépendants sur le monde arabe) sono stati perquisiti e i giornalisti sono stati arrestati, per poi essere rilasciati. Mada Masr è stato regolarmente minacciato dalle forze di polizia a causa delle sue inchieste sui meccanismi segreti del potere egiziano.

Il 1 settembre 2018 il regime di Al Sisi ha approvato una nuova legge per rafforzare il controllo sui mezzi d’informazione online e su tutti i social network con più di cinquemila utenti. Le piattaforme in questione possono essere sospese e i loro amministratori sono punibili con pene carcerarie e pesanti multe fino a centomila lire egiziane, ovvero più di quattromila euro. In questo modo lo stato di polizia si è inserito strutturalmente nella maglia di sicurezza al servizio del regime militare e del suo presidente. Dopo la rivoluzione del 2011 il Centro egiziano per i diritti economici e sociali ha cominciato a raccogliere dati sulla repressione (in particolar modo quella online) intensificata da Al Sisi ma avviata già durante il regime di Mubarak.

L’ereditarietà del potere
In Egitto il patto tra il potere esecutivo e l’esercito è stato sempre presentato come uno strumento per garantire la pace. Questo equilibrio, però, è stato alterato nel 2010 dalla volontà di Mubarak di introdurre una riforma che ratificasse l’ereditarietà del potere. Le modifiche costituzionali apportate nel 2005 e nel 2007 per limitare l’operato dei giudici avevano già complicato l’accesso alla funzione presidenziale, rendendolo quasi impossibile per i militari a causa dell’introduzione di criteri restrittivi per la presentazione di una candidatura.

La gerarchia militare, naturalmente, si è opposta con forza al criterio dell’ereditarietà del potere. Inoltre le modifiche introdotte nel 2007 hanno incrementato l’influenza del presidente e delle forze di sicurezza, riducendo nei fatti il peso dell’esercito sulla scena politica egiziana. Nel periodo in cui l’Egitto è stato dominato da Mubarak (1981-2011) si è verificata una vera e propria “polizizzazione” del regime a spese dell’esercito.

Durante la presidenza di Mubarak il ministero dell’interno è stato profondamente riformato e sono stati assunti 1,6 milioni di funzionari in più nella sicurezza di stato (sciolta il 15 marzo 2011 e sostituita dalla sicurezza nazionale). La polizia politica dipendente dal ministero avrebbe il compito di proteggere lo stato, ma in realtà ha continuato a seminare il terrore tra la popolazione portando avanti un’opera di sorveglianza nei confronti dei cittadini considerati sospetti (con la creazione di schede di informazioni) e procedendo ad arresti arbitrari per mantenere un clima di terrore.

Nel marzo 2011 i manifestanti sono entrati nel palazzo della sicurezza al Cairo per salvare i documenti che avrebbero potuto costituire importanti prove per i processi giudiziari di transizione. All’interno della struttura hanno scoperto stanze dedicate alla tortura.

Esercito e polizia si sono trovati in concorrenza per il predominio all’interno dello stato

La legge sull’amministrazione locale del 1979 stabiliva che all’interno del paese ogni muhafazah (regione amministrativa) fosse dotata di un capo della polizia incaricato dell’ordine pubblico in collaborazione con il governatore locale. Di conseguenza il governo ha potuto contare su una rete di polizia che gli ha permesso di controllare l’ordine sociale.

L’articolo 148 della costituzione definisce i princìpi dello stato di emergenza. Sotto la presidenza di Mubarak la pratica è diventata permanente, con il rinnovo nel 1981 e il prolungamento approvato dal parlamento nel 2010. All’epoca la scelta era stata giustificata con la necessità di affrontare la minaccia terroristica, ma lo scopo reale era soprattutto quello di vietare manifestazioni di piazza e assembramenti pubblici in un momento di forte contestazione del regime.

Impunità della polizia
Questo significava che in Egitto era impossibile la nascita di un’opposizione strutturata, e il multipartitismo era solo una facciata. Barbara Azaola Piazza, docente dell’università di Castiglia-La Mancia, in Spagna, sottolinea che quella legge “concedeva al regime un potere discrezionale per imporre vincoli alla libertà di riunione, movimento, presenza e passaggio in determinati luoghi e momenti. Inoltre garantiva alla sicurezza pubblica il potere di incarcerare persone ritenute ‘sospette’ o ‘pericolose’”.

Said Okasha, ricercatore del centro Al Ahram del Cairo, completa questa analisi: “Un conflitto silenzioso opponeva l’istituzione militare e gli organismi di sicurezza (i servizi d’informazione al Mukhâbarât, il ministero dell’interno e, al suo interno, la sicurezza di stato) che si contendevano influenza e potere”. Di conseguenza esercito e polizia si sono trovati in concorrenza per il predomino all’interno dello stato. Il picco della “polarizzazione” raggiunto nel 2010 ha anticipato la rivoluzione del 2011. La rivolta è scoppiata il 25 gennaio, data simbolica della festa nazionale della polizia. Uno dei fattori scatenanti è stata la morte di Khaled Said, assassinato dagli agenti che si erano presentati per arrestarlo in pieno giorno in un internet café di Alessandria (la versione ufficiale sosteneva che fosse accusato di traffico di droga).

La fotografia del viso di Said sfigurato e tumefatto è diventata il simbolo della violenza e dell’impunità della polizia. Un collettivo chiamato Kollena Khaled Said (Noi siamo Khaled Said) ha coinvolto più di un milione di persone su Facebook. Una delle rivendicazioni principali del collettivo, che ha ricoperto un ruolo importante nelle manifestazioni contro il regime, era la fine delle violenze commesse dalla polizia.

Durante la rivolta alcuni gruppi di manifestanti hanno raccolto le prove delle repressioni operate dalle forze di sicurezza. Il collettivo Mosirreen (Ostinati) è stato tra i più interessanti, perché ha collezionato immagini e filmati che testimoniavano i crimini della polizia e li ha pubblicati su YouTube. In uno dei video un manifestante detenuto in una cella del ministero dell’interno racconta che “tutte le persone arrestate sono state picchiate e in alcuni casi torturate con cavi elettrici”. Le testimonianze degli arrestati hanno evidenziato il carattere sistematico dei metodi adottati nei commissariati, nei furgoni di polizia e nei centri di detenzione.

Una nuova collaborazione
In Egitto la formazione degli agenti dura due anni e si svolge all’interno della scuola di polizia del Cairo, un’istituzione molto famosa. Tuttavia, con Mubarak e il ministro dell’interno Habib Al Adli si è verificato un processo di “subappalto” della repressione attraverso le milizie chiamate baltaguiyya, usate dalla polizia egiziana fin dagli anni ottanta e i cui stipendi sono pagati dal ministero dell’interno. Durante la rivoluzione del 2011 le milizie sono state mobilitate in massa. Formate soprattutto da ex carcerati e criminali, avevano il compito di infiltrarsi tra i manifestanti e seminare il caos. In questo modo il regime poteva ottenere i risultati sperati senza essere accusato di usare la forza contro i manifestanti (approccio tipico anche di altri regimi).

Tuttavia quella gestione della società attraverso le forze di polizia ha evidenziato diversi limiti e non è stata sufficiente a soffocare la contestazione. Mubarak, di conseguenza, è stato costretto a ricorrere all’esercito. In questo senso la rivoluzione del 2011 ha avuto come effetto un iniziale indebolimento dell’apparato di polizia del regime, provocando un ritorno in auge dell’istituzione militare. La polizia, infatti, era associata al regime di Mubarak, mentre l’esercito poteva presentarsi come garante dell’unità nazionale. Dopo la caduta di Mubarak si sono verificate addirittura scene di fratellanza tra soldati e manifestanti, con lo slogan “Echaab wel guich, id wahda” (il popolo e l’esercito, mano nella mano).

Con la caduta di Mubarak, l’11 febbraio del 2011, i capi dello stato maggiore sono stati allontanati, ma alcune figure chiave sono rimaste al loro posto. Come il generale Mohamed Hussein Tantawi, all’epoca ministro della difesa e particolarmente inviso ai manifestanti. Al contempo i ranghi delle forze di polizia sono stati epurati, e il potere di transizione è stato affidato all’esercito che in questo modo ha potuto apparire come difensore dello stato. Questo ritorno dell’esercito sulla scena politica è stato permesso dal cambio ai vertici, ma anche dalla collaborazione delle forze di polizia, che hanno smesso di rivaleggiare con i militari cominciando ad assisterli.

La polizia ha perso il suo ruolo privilegiato al centro dello stato, ma ha comunque conservato un certo margine di autonomia. Mohamed Morsi non ha realizzato alcuna riforma del ministero dell’interno e delle prerogative della polizia, ma aveva cercato di ottenerne il sostegno per rafforzare la sua autorità. Morsi aveva nominato come ministro dell’interno Ahmed Gamal al Din, vicino a quell’Habib al Adli che aveva ricoperto l’incarico tra il 1997 e il 2011. Durante il suo breve mandato le torture e gli arresti arbitrari non si erano fermati. Nel giugno 2013 le forze di polizia sono state nuovamente mobilitate per reprimere le manifestazioni.

In definitiva le rivolte e la democratizzazione non hanno intaccato le strutture dello stato di polizia in Egitto. Ancora oggi qualsiasi possibilità che emerga un’opposizione politica sembra cancellata dallo stretto controllo sulla società, sfruttato a fasi alterne dall’esercito e da regimi apparentemente civili. Laddove in passato la “polizizzazione” si è verificata a scapito dell’esercito, oggi lo stato di polizia sussiste al servizio dell’ordine marziale che ormai controlla ogni aspetto della vita in Egitto.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito su Orient XXI.

pubblicità