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L’ora di casa

Dalla serie D’après moi le déluge, Francia, 2012. (Quentin Bertoux, Vu/Karma press photo)

Questo articolo è uscito il 27 agosto 2010 nel numero 861 di Internazionale, a pagina 70. L’originale era uscito su The Independent con il titolo Prophet of bad taste.

Poche cose scatenano l’angoscioso senso di colpa che provo ogni volta che mi sveglio alle tre del pomeriggio. Appena leggo l’ora sul cellulare provo un brivido di vergogna, come se mi ricordassi di aver bevuto un bicchiere di troppo la sera prima. Ho sprecato tempo e ho dimostrato ai miei simili quanto sono pigra. Potrei anche tirarmi di nuovo il lenzuolo sulla testa e fingere che la giornata non sia mai cominciata.

Da qualche tempo conosco fin troppo bene questa sensazione. Spesso non sento la sveglia e continuo a dormire, fino a pomeriggio inoltrato. E non (solo) perché sono una giornalista pigra. Mi sto sottoponendo a un esperimento molto poco scientifico che consiste nel dissociare i miei ritmi circadiani dal normale ciclo notte-giorno. All’inizio di quest’anno ho lasciato il mio posto fisso di redattrice per viaggiare e lavorare come freelance. Il mio compagno collabora con un sito di notizie che gli consente di passare lunghi periodi lontano dall’ufficio. Ci siamo resi conto che potevamo vivere dovunque – purché rimanessimo entro il fuso orario della costa orientale degli Stati Uniti – così abbiamo annullato il contratto d’affitto della nostra casa, messo i mobili in un deposito e cominciato a prenotare voli.

Avremmo dovuto alzarci alle 7 di mattina e andare a letto a mezzanotte Eastern standard time (Est), con un po’ più di flessibilità durante il weekend. Questo significava che potevamo esplorare l’Europa occidentale, alcune parti del Nordafrica, il Sudamerica e l’America Centrale (l’Asia e tutto l’oriente erano fuori questione, perché sarei diventata praticamente un vampiro). Chi non avrebbe sopportato il piccolo fastidio di un cambio di ritmi per avere la possibilità di vedere tante cose?

E così abbiamo cominciato a viaggiare. Ci siamo fermati a Lisbona (Est + 5 ore) per un mese: mi svegliavo a mezzogiorno e scendevo come uno zombie a prendere il caffè. Su una spiaggia del Pacifico nordoccidentale (-3), mi alzavo prima dell’alba, e a Parigi (+ 6) mi lavavo i denti alle sei di mattina, non per mettermi a lavorare ma per andare a letto. Quando siamo tornati a New York per qualche settimana, ho ripreso i normali ritmi sociali. Tra poco partirò per Barcellona (+ 6) e poi per Buenos Aires (+ 1). L’esperienza che sto vivendo si chiama discronia circadiana, in pratica sono indipendente dal giorno solare.

La battaglia del jet lag
Quando sono partita per il mio primo viaggio sapevo poco dei ritmi circadiani e del sonno in generale. Nel 1729 l’astronomo francese Jean-Jacques Dortous de Mairan fu uno dei primi scienziati a osservare questi cicli biologici. Mentre scriveva si accorse che la sua mimosa ripiegava le foglie per la notte e decise di verificare se la pianta aveva un orologio interno tenendola nell’oscurità. Nel suo libro Internal time Till Roenneberg, docente di cronobiologia a Monaco di Baviera e presidente della Federazione mondiale delle società di cronobiologia, descrive il risultato di quell’esperimento. Anche se privata della luce naturale, “evidentemente la pianta ‘conosceva’ la posizione del Sole e ‘sapeva’ quando era giorno e quando era notte. Ogni mattina, poco prima dell’alba, le sue foglie si aprivano, e ogni sera, poco prima che il Sole tramontasse, si ripiegavano di nuovo”. I suoi cicli interni erano indipendenti dal mondo esterno. Ma fu solo negli anni cinquanta del novecento che Franz Halberg, uno dei fondatori della cronobiologia – lo studio di questi cicli – introdusse il termine “circadiani” per definire i ritmi biologici interni. Nello stesso periodo fu scoperto il sonno rem, si cominciò a comprendere meglio la natura del sonno stesso – che non è un blocco unico ma è costituito da una serie di fasi –, si arrivò a una definizione dell’apnea notturna e si scoprirono le proprietà della melatonina. Fu un periodo molto attivo per il sonno.

Dormiamo per circa un terzo della nostra esistenza. Nonostante il ruolo fondamentale che il sonno svolge nella nostra vita, non avevo pensato che modificare ogni poche settimane il mio ritmo sonno-veglia rispetto al giorno solare avrebbe potuto avere delle conseguenze.

Quando sono arrivata a Lisbona, con gli occhi rossi per la stanchezza dopo il volo da New York, sono uscita dall’aeroporto sul piazzale assolato. Sulla costa orientale degli Stati Uniti erano le 3.20 del mattino, lì erano le 8.20. Quando i miei occhi hanno visto il Sole, il mio cervello ha deciso che doveva ancora essere il giorno prima. Da quel momento tra me e il mio corpo è cominciata una silenziosa battaglia per stabilire quali dovessero essere le normali ore di sonno. Sapendo di dover rimanere sveglia fino alle 5 del mattino locali, cercai di fare un pisolino, ma il mio corpo opponeva resistenza, sostenendo che dovevo aspettare fino al pomeriggio. La camera da letto aveva una portafinestra coperta da tende leggerissime che ondeggiavano al vento e lasciavano arrivare fasci di luce sul letto. Di solito chi viaggia conosce i sintomi del jet lag e cerca di adattarsi ai nuovi orari prima possibile. Io invece avevo sperato che il jet lag mi avrebbe aiutato a non adattarmi a ogni nuova alternanza tra luce e buio. Ma quella stanza illuminata la pensava diversamente.

Il termine jet lag fu coniato intorno al 1966. Fino a quel momento i lenti viaggi in nave attraverso l’Atlantico o le cavalcate attraverso l’Asia avevano permesso agli esseri umani di adattarsi gradualmente al nuovo ambiente (l’orologio interno può spostarsi all’incirca di un’ora al giorno). Le indicazioni che il nostro orologio interno raccoglie dall’ambiente esterno in tedesco si chiamano zeitgeber (segnali del tempo). Sono fattori come la temperatura e, soprattutto, la luce: per i primi esseri umani il segnale più importante per stabilire quando potevano andare a caccia e quando dovevano mettersi al riparo veniva dal Sole. A questi si aggiungono segnali interni, elaborati da una regione del cervello chiamata nucleo suprachiasmatico, o Scn. È quel mucchietto di materia grigia a controllare i ritmi circadiani. Lo fa in parte agendo sulla ghiandola pineale per indurla a produrre l’ormone ipnoinducente detto melatonina, che in alcune parti del mondo si può anche comprare in farmacia senza ricetta.

Dissociati
Di solito viviamo in base a un ciclo di 24 ore collegato alla luce del giorno. Ma alcuni esperimenti sul sonno hanno rivelato che, quando siamo privati di qualsiasi indicazione esterna come la luce solare e gli orologi, quasi tutti passiamo a un ciclo libero di 25 ore, perché gli zeitgeber ci spostano leggermente in avanti rispetto al nostro tempo interno. Uno dei primi esperimenti in questo campo fu condotto dallo scienziato tedesco Jürgen Aschof e dal suo collega Rütger Wever, che all’epoca lavoravano a Princeton. Fecero costruire due bunker in Baviera dai quali erano stati eliminati tutti i segni del tempo esterno. Non avevano finestre, erano isolati acusticamente e perino progettati per non risentire dei cambiamenti del campo elettromagnetico. I soggetti che si trovavano al loro interno erano accuratamente monitorati, sia dal punto di vista mentale sia da quello fisico (perfino tramite una sonda rettale attaccata con un lungo tubo a un’apertura sul muro). Come avevano previsto, nel corso di tre settimane la maggior parte delle persone si stabilizzò su un ciclo leggermente più lungo di 24 ore, dormendo circa un terzo del tempo. Come le mimose di Mairan, pur non vedendo il Sole gli esseri umani seguivano i loro ritmi naturali.

Il vero orologio è dentro di noi. I segnali esterni lo sincronizzano con il mondo, impedendoci di slittare ogni giorno in avanti rispetto al ciclo solare. È proprio a causa di questo tempo interno che sperimentiamo il jet lag. “Qualunque ora sia per il suo orologio interno”, scrivevano nel 2007 gli autori di un articolo sul jet lag pubblicato sulla rivista medica The Lancet, “il nostro corpo si deve adattare al giorno solare”. È per questo che i medici chiamano il jet lag disincronosi. Chi viaggia è temporaneamente dissociato dal mondo che lo circonda.

Quel primo giorno, a Lisbona, alla fine ho ceduto a un sonno leggero. Da quel mo- mento il mio corpo ha opposto sempre più resistenza con il passare dei giorni, svegliandomi appena la luce del giorno cominciava a filtrare attraverso le tende, indipendentemente da quanto avevo dormito. All’inizio il jet lag mi ha aiutato a rimanere ancorata all’ora della costa est degli Stati Uniti (mi alzavo a mezzogiorno e andavo a letto all’alba), ma poi non ha più funzionato perché i miei ritmi circadiani facevano di tutto per adattarsi al ciclo solare. Mi sentivo stanchissima a strane ore del giorno, e quasi sempre dovevo dormire un po’ intorno alle 11 di sera. La mattina (che a Lisbona era pomeriggio) ero disorientata e nervosa. Era difficile programmare i pasti e spesso li saltavamo, accontentandoci di fare uno spuntino con un caffè quando non ci andava di mangiare a mezzanotte. Ho cominciato a ingrassare e ho dovuto prendere un leggero antidepressivo. E comunque, mi svegliavo un po’ prima ogni mattina e avevo sonno un po’ prima ogni sera.

La doccia entro mezzogiorno
Per un adulto non è facile dormire fin dopo mezzogiorno. Il nostro ciclo circadiano invecchia con noi. Da bambini ci svegliamo presto, da adolescenti non andremmo mai a letto e da adulti ci attestiamo su una via di mezzo. Naturalmente, all’interno di questa tendenza generale esistono molte varianti personali. I cronobiologi chiamano cronotipi gli orologi genetici interni che spingono certe persone ad alzarsi presto e altre a stare alzate fino a tardi.

A New York di solito mi svegliavo verso le 8.30 di mattina. Adesso gli orari irregolari mi impediscono di accorgermi dei piccoli cambiamenti del mio ciclo sonno-veglia. A Parigi (+ 6) ho cercato di alzarmi presto come ero abituata a fare negli Stati Uniti, ma concetti come presto e tardi diventano piuttosto confusi quando presto significa riuscire a fare la doccia entro mezzogiorno.

Prima che arrivassero i viaggi aerei e lo spiazzamento temporale che li accompagna, gli esseri umani si sono staccati per la prima volta dai loro ritmi naturali quando è stata inventata la luce elettrica. La sua diffusione ha reso possibili anche i turni di lavoro notturni. Praticamente è quello che faccio in Europa. Accendo tutte le luci dell’appartamento dove abito, mi metto al computer e cerco di convincere il mio cervello che è spuntato il Sole. Come mi ha detto Steven Scharf, un esperto di sonno dell’università del Maryland, alcuni se la cavano meglio di altri in queste situazioni innaturali. Per ridurre al minimo il disagio dei turni di notte, mi ha suggerito di usare tende molto pesanti per non far entrare la luce del giorno e di indossare occhiali con le lenti gialle di sera, per contrastare l’esposizione alla luce azzurra.

La luce è il principale sistema di regolazione del nostro orologio interno

“Se veramente non vuole rinunciare all’ora della costa orientale, cosa che non le consiglierei di fare, oltre a rispettare i suoi ritmi di sonno e veglia deve anche evitare la luce”, mi ha detto. Non sarebbe un cattivo consiglio, però non posso accettarlo. La ragion d’essere di tutto questo esperimento sono proprio le poche ore che riusciamo a strappare prima del clou della giornata lavorativa sulla costa orientale, per correre a fare i turisti o andare a pranzo fuori appena alzati. Se restassi a casa dietro quelle tende pesanti, tutta la fatica che stiamo facendo non sarebbe più giustificata.

La luce è la cosa più importante per scandire il nostro tempo, il principale sistema di regolazione del nostro orologio interno. Quindi non c’è da sorprendersi se l’introduzione del nostro Sole personale ha comportato tante conseguenze. Solo un paio di anni fa i neurologi della Thomas Jefferson university di Filadelfia si sono resi conto che la luce azzurra che mi avevano consigliato di evitare influisce notevolmente sui ritmi circadiani. In occasione di uno studio del 2001 diretto da Christian Cajochem, un cronobiologo dell’università svizzera di Basilea, i ricercatori hanno chiesto a 13 uomini di fissare lo schermo di un computer per cinque ore a notte. Per una settimana hanno guardato schermi fluorescenti, che emettono luce di tutti i colori; per un’altra settimana hanno avuto davanti schermi a led, la cui luce è molto più azzurra. Gli studiosi hanno riscontrato “enormi differenze” tra le due situazioni: quando i soggetti guardavano gli schermi azzurri, nel corso della notte mostravano un abbassamento dei livelli di melatonina. Il nostro corpo, creato per la luce solare, adesso assorbe la luce azzurra di innumerevoli schermi che modifica leggermente il nostro orologio interno e ci spinge a rimanere alzati un po’ di più ritardando il rilascio della melatonina che ci farebbe addormentare.

Vita da nomade
Qualche settimana fa mi sono ammalata più seriamente di quanto mi fosse mai accaduto da adulta e alla fine sono stata costretta a sottopormi a un’operazione chirurgica. I medici che mi curavano non riuscivano a capire perché mi fossi ammalata così all’improvviso. Non credo che siano state le mie strane ore di sonno a farmi finire in ospedale, ma questo mi ha spinto a riflettere sulla mia battaglia contro i ritmi circadiani. Prima della malattia pensavo che valesse la pena di fare quell’esperienza nonostante il disagio, anche se non riuscivo a vedere molto dei posti che visitavo. Sono convinta che la capacità di andare contro la nostra natura sia uno dei tratti che rendono unici gli esseri umani.

Ma ora mi chiedo se non sono stata troppo arrogante a voler ignorare il mio orologio interno. La malattia ci fa capire quanto la nostra coscienza superiore dipenda dal corpo. Da uno studio commissionato dall’Organizzazione mondiale della sanità e pubblicato su The Lancet nel 2007 è emerso che qualsiasi sconvolgimento dei ritmi circadiani, come quello provocato dai turni di lavoro, è probabilmente cancerogeno, e una ricerca condotta nel 2013 da Paolo Sassone-Corsi e dai suoi colleghi dell’università della California a Irvine ha dimostrato che i ritmi circadiani controllano la reazione del corpo ad agenti patogeni come la salmonella. Mentre ero in ospedale mi sono chiesta quali forze avevo sfidato giocando con il mio orologio interno.

Questa vita da nomade mi piace ancora. Mentre faccio le valige per Barcellona (+ 6) mi preparo ancora una volta a combattere i miei ritmi circadiani, lasciandomi alle spalle il cronotipo che mi spinge ad andare a letto leggermente tardi per entrare nel regno dei veri uccelli notturni che stanno svegli fino alle sei di mattina e si alzano dopo mezzogiorno. Per circa sei giorni cercherò di non lasciare che il mio ritmo sonno-veglia si adatti al giorno solare. Ma ora ho più rispetto per i miei ritmi circadiani, che sono molto personali e funzionano indipendentemente da dove sorge la nostra stella. Dentro di me c’è un orologio che batte come un secondo cuore invisibile, e ho deciso di prestare più attenzione a quel battito.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito il 29 novembre 2013 nel numero 1028 di Internazionale, a pagina 70. L’originale era uscito su Aeon con il titolo Unhinged.

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