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Le aziende italiane scelgono gli Stati Uniti nonostante i dazi

Nei laboratori tessili di Twinset a Carpi, 28 ottobre 2025. (Gabriele Micalizzi, Cesura per Le Monde)

Sergio Dompé, industriale lombardo, è certo che il futuro della sua azienda si scriverà negli Stati Uniti di Donald Trump, che ora impone dazi doganali del 15 per cento agli esportatori europei: “L’Unione europea ha regolamentato troppo e ha trascurato l’innovazione”.

Dompé, presidente dell’omonimo gruppo farmaceutico, accoglie Le Monde nella sua sede a Milano, ma risponde alle domande in videoconferenza dalla California, dove la sua azienda ha una sede commerciale. Il gruppo ha avuto un fatturato di 1,2 miliardi di euro nel 2024 e prevede di investire negli Stati Uniti. “Almeno 1,5 miliardi di euro nei prossimi tre o quattro anni. I dazi doganali statunitensi sui farmaci innovativi hanno dato un motivo in più per andare in questa direzione”, spiega Dompé.

Per l’Italia, seconda potenza industriale europea dopo la Germania, l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha segnato una svolta. Dal settore farmaceutico alle macchine utensili, passando per il settore tessile e agroalimentare, nel 2024 l’Italia ha esportato merci per 70 miliardi di euro verso gli Stati Uniti, suo secondo partner commerciale. Quindi la reazione italiana ai dazi rappresenta un test importante per l’Unione europea.

Vista la difficoltà nel trovare dei mercati alternativi, lo stato d’animo degli imprenditori italiani è passato da una forma di accettazione forzata a un timido entusiasmo perché considerano la politica economica di Trump favorevole alla crescita.

Comunque voltare le spalle alla principale potenza economica mondiale è impensabile. Le statistiche lo confermano: da gennaio a settembre 2025 le esportazioni dell’Italia verso gli Stati Uniti sono aumentate del 9,5 per cento. Parte di questo aumento si spiega con le scorte accumulate prima dell’introduzione dei dazi, ma anche dopo non c’è stato alcun crollo.

Ci vuole una reazione

L’esempio di Dompé dimostra quanto sono importanti gli Stati Uniti per l’Italia. Nel 2012 l’azienda farmaceutica, fondata dal nonno, ha acquisito una startup statunitense di biotecnologia specializzata nel fattore di crescita nervosa, una proteina che consente trattamenti oftalmici innovativi. Il prezzo del farmaco non è pubblico, ma secondo la stampa statunitense è venduto negli Stati Uniti al prezzo di circa centomila dollari (86 mila euro) per un ciclo di trattamento di otto settimane.

In sette anni il fatturato del gruppo è aumentato di sette volte e i tre quarti dell’aumento sono stati realizzati negli Stati Uniti. Il futuro si preannuncia molto positivo: la Food and drug administration (l’agenzia statunitense per gli alimenti e i medicinali) ha permesso alla Dompé di ridurre la durata di alcuni test clinici, grazie alla priorità data dall’amministrazione statunitense alla diffusione di farmaci innovativi.

“Oggi gli Stati Uniti sono il paese dell’innovazione, non vedo questa energia in Europa”, afferma Dompé. Pazienza se Robert F. Kennedy Jr., segretario statunitense alla salute e complottista, porta avanti una politica apertamente ostile alla scienza. “Sono orgoglioso di essere italiano ed europeo, ma devo pensare prima di tutto alla mia azienda e alla mia famiglia. Sono un imprenditore e devo capire dove sta andando il mondo, non prevedo un grande futuro per l’Unione europea. In ogni caso senza una reazione immediata sarà troppo tardi”, sostiene Dompé.

Il presidente del gruppo ha ereditato l’azienda, come tanti imprenditori italiani per i quali il modello familiare resta un punto di riferimento. È anche il caso di Giuseppe Pasini, presidente di Feralpi, il gruppo siderurgico fondato dal padre, e alla guida della Confindustria lombarda: “Se avessi dieci imprenditori lombardi intorno al tavolo, otto direbbero di essere pronti a investire negli Stati Uniti”, afferma. La sera prima dell’intervista è stato invitato con altri imprenditori a una cena organizzata a Milano dal colosso finanziario J.P. Morgan, che li ha convinti che le prospettive economiche statunitensi sono buone, al contrario di quelle italiane.

Filippo Taddei, economista della banca d’affari Goldman Sachs, prevede che la crescita italiana perderà tra 0,4 e 0,6 punti di pil in tre anni a causa di fattori strutturali. Si tratta di cifre significative per un paese la cui economia nel 2025 non dovrebbe crescere più dello 0,6 per cento e dove la spesa pubblica è vincolata da un pesante debito: “La situazione sarebbe molto delicata se non ci fossero stati il piano dell’Unione europea per favorire la ripresa economica dopo la pandemia e l’annuncio del piano di rilancio della Germania”.

Dopo l’introduzione dei dazi Nicola Levoni, presidente dell’omonima azienda di salumi fondata dal bisnonno nel 1911, ha incontrato con l’aiuto di uno studio legale statunitense alcuni deputati del congresso a Washington, per difendere gli interessi dei produttori italiani di carne suina: “Ci sono persone disposte ad ascoltare, in particolare tra i parlamentari di origine italoamericana”.

Scommettendo sul potere d’acquisto degli statunitensi, Levoni nel 2024 ha aperto nel New Jersey un centro per il taglio e il confezionamento dei salumi prodotti in Italia. L’azienda vorrebbe espandersi, ma i macchinari che usa, altamente specializzati, sono prodotti solo in Europa ed esportarli costa molto a causa dei dazi. Ma il problema è sapere quanto incidono le tasse doganali sul valore della merce: per il 15 per cento o per il 50, la cifra che si applica all’acciaio e all’alluminio usati nei macchinari? La risposta rimane vaga.

“Nessuno sa esattamente come calcolare i dazi sui prodotti che contengono acciaio e alluminio. Le piccole e medie impresse non hanno il personale specializzato per farlo. Ma bisognerà fare i conti con questa realtà”, spiega Barbara Cimmino, vicepresidente della Confindustria per l’export e l’attrazione degli investimenti.

Il bullo vince

Claudio Stefani Giusti produce aceto balsamico a Modena, un settore che esporta il 92 per cento del suo prezioso condimento, molto richiesto negli Stati Uniti. L’attività della famiglia Giusti risale al 1605 e rientra in quelle “eccellenze italiane” che il governo Meloni vuole promuovere con il ministero delle imprese e del made in Italy.

L’azienda realizza il 12 per cento del fatturato negli Stati Uniti e ha una sede commerciale a New York. “Di fronte ai dazi abbiamo dovuto aumentare i nostri prezzi del 5 per cento e presto saliranno dell’8 per cento”, annuncia Stefani nel giardino perfettamente curato dell’antica casa colonica dove ha sede l’azienda. Le botti centenarie dove invecchiano i suoi aceti emanano profumi inebrianti. Le bottiglie più preziose, da 100 millilitri, si vendono a 129 euro l’una.

In vent’anni Stefani ha moltiplicato il fatturato per quindici. “Non si può smettere di investire negli Stati Uniti. Qualunque cosa succeda, questo mercato sarà fondamentale”, spiega. Pur preoccupato dalla deriva autoritaria dell’amministrazione Trump, l’imprenditore si mostra rassegnato. “A volte, il bully vince”, si rammarica, usando un termine inglese che indica il bullo da cortile.

Anche se gli esportatori italiani continuano a credere negli Stati Uniti, una parte di loro è comunque costretta a rallentare a causa dei dazi. L’azienda Twinset, che produce abbigliamento di lusso, aveva grandi progetti sugli Stati Uniti. Il suo presidente, Alessandro Varisco, prevedeva di aprire dei negozi nelle città di media grandezza: “Per ora l’investimento è stato sospeso perché abbiamo bisogno di stabilità, ma non faremo mai a meno del mercato statunitense”.

L’ex presidente della Confindustria Emma Marcegaglia va oltre: descrive un futuro segnato dalla frammentazione del commercio internazionale in grandi blocchi geografici, con l’Unione europea e gli Stati Uniti che si allontanano. Il gruppo Marcegaglia, di cui è a capo, è una multinazionale per la trasformazione dell’acciaio che ha 7.800 dipendenti. Questo è il settore più colpito dai dazi: Trump aveva imposto dazi del 25 per cento sull’acciaio già durante il primo mandato, per poi portarli al 50 per cento a giugno di quest’anno. Da allora si è innescato un ingranaggio protezionista.

L’Unione europea ha replicato con misure simili. Il gruppo Marcegaglia ha dovuto adattarsi: fino a poco tempo fa importava l’acciaio soprattutto dall’Asia, per poi lavorarlo nei suoi stabilimenti. I dazi doganali hanno però reso questo sistema superato, quindi l’azienda ha comprato degli stabilimenti siderurgici nel Regno Unito e in Francia: “Dovremo affrontare meno concorrenza e prevediamo un aumento dei prezzi. A lungo termine, tutti saranno più poveri”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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