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In Cina è partito il boicottaggio di Seoul

Una protesta contro l’installazione del sistema missilistico Thaad a Seongju, in Corea del Sud, il 18 marzo 2017. (Ed Jones, Afp)

Quando al 35º del primo tempo l’attaccante del Beijing Guo’an Yu Dabao ha fatto gol di testa su calcio d’angolo, lo stadio di Changsha si è trasformato in un vulcano ribollente di lava rossa, i colori della nazionale cinese guidata da Marcello Lippi. Era il 23 marzo 2017, la Cina aveva battuto la Corea del Sud 1 a 0, mantenendo vive le speranze di qualificarsi ai Mondiali russi del 2018.

Speranze che si sono polverizzate puntualmente una settimana dopo quando i Draghi hanno perso contro l’Iran, capolista nel girone A del gruppo di qualificazione asiatico. Ma della scarsissima nazionale cinese – 81ª nel ranking Fifa – ci interessa poco: il dato notevole è che a Changsha c’erano diecimila poliziotti per 37mila spettatori – di cui cento coreani in trasferta – una dimostrazione di forza simile a quelle che, dall’altra parte della Cina, riaffermano il pugno di ferro di Pechino sul problematico Xinjiang.

Merendine, ristoranti e crociere
Pechino. Xiang’er hutong. Lui è un amico, il suo ristorante si chiama Saveurs de Coree, alla francese, ma Chow Kingtai è cinesissimo, di etnia han, anche se cantonese, come il suo nome lascia intendere: il cognome Chow è l’equivalente del mandarino Zhou. Ha una moglie, lei sì coreana, e tre bambine. “Da quando c’è questa storia, non viene più nessuno”, mi dice sconsolato, mostrando il ristorante semivuoto, “non so cosa fare. Fino al capodanno lunare eravamo sempre pieni, adesso i pochi che mettono il naso dentro si assicurano prima che il titolare sia cinese”.

Come cinque anni fa – penso – quando c’erano le manifestazioni antigiapponesi per la questione delle isole contese Diaoyu (per i cinesi) o Senkaku (per i giapponesi): i titolari di sushi bar e i possessori di Toyota mettevano il cartello “sono cinese” sulla porta o sul cruscotto per evitare che i vetri andassero in frantumi. Ogni giorno passavo in bicicletta di fronte all’ambasciata giapponese, c’erano barriere che ricordavano certi checkpoint a Beirut.

Una protesta sul luogo in cui si sta costruendo il sistema missilistico Thaad a Seongju, in Corea del Sud, il 18 marzo 2017.

Questa volta, l’oggetto del contendere è il sistema missilistico Thaad, che la Corea del Sud sta cominciando a installare in collaborazione con gli Stati Uniti. Washington preme da tempo perché ciò avvenga, in un’Asia nordorientale dove la tensione è altissima e dove Donald Trump sta gettando benzina sul fuoco.

Ufficialmente i missili servono a difendersi contro le “follie” del dirimpettaio, il nordcoreano Kim Jong-un, ma la Cina ha già protestato, e a lungo, perché potrebbero raggiungere il suo territorio.

In un’escalation verbale e non solo, l’hashtag “si contrasta la Corea del Sud cominciando dal calcio” ha avuto 640mila click su Weibo – il Twitter cinese - prima dell’inizio del match di Changsha. Intanto, le cronache riportavano che in tutta la Cina è in atto il boicottaggio della sudcoreana Lotte, soprattutto grazie ai bambini che non comprano più i suoi snack. L’80 per cento dei supermercati Lotte sul suolo cinese – 79 su 99 – ha chiuso i battenti nel solo mese di marzo, alcuni dopo un’ispezione improvvisa di funzionari locali che hanno trovato qualche irregolarità.

La vicenda è andata così in là che la Corea del Sud ha presentato una denuncia all’Organizzazione mondiale del commercio. E poi ci sono quei 3.400 turisti cinesi imbarcati sulla Costa Serena che si sono rifiutati di scendere nell’isola coreana di Jeju. C’è andata di mezzo pure l’Italia: la nave appartiene a Costa Crociere, che ha dovuto cancellare altri due viaggi previsti per marzo e giugno, secondo i mezzi d’informazione cinesi.

A volte, gli inintelligibili codici di comunicazione tra orientali mi lasciano estasiato

E così si arriva al ristorante del mio amico Kingtai, desolatamente vuoto. Lui racconta che ama Pechino, vive qui da più di dieci anni e non vuole andarsene. Dove poi? Io cerco di mangiare da lui almeno una volta alla settimana, per solidarietà e anche perché il gogigui, il barbecue, è delizioso.

Ma lui si ostina a non farmi pagare. E allora a che serve? Forse, per il momento, vuole semplicemente sentirsi meno solo. Poi però mi sorprende: “Probabilmente anch’io farei così se fossi in loro”, dice. La stessa frase che pronunciavano amici giapponesi residenti a Pechino, nel 2012: “Dal loro punto di vista hanno ragione”, dicevano, riferendosi ai nazionalisti cinesi che prendevano a calci le Toyota.

Dopo qualche settimana, di solito, tutto si aggiusta: la censura cancella i messaggi più aggressivi sui social media, la gente coglie il messaggio e torna a consumare coreano o giapponese, a seconda dell’incidente diplomatico di turno. A volte, gli inintelligibili codici di comunicazione tra orientali mi lasciano estasiato.

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