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Il canto indomabile della Niña

La Niña. (Alfredo Maddaluno)

Può sembrare strano, eppure sta succedendo. In un mercato sempre più regolato dagli algoritmi, in cui si discute ogni giorno dell’impatto dell’intelligenza artificiale sulla creatività, la musica pop sta riscoprendo il sacro e l’ancestrale. L’accoglienza trionfale della critica mondiale al disco Lux della cantante spagnola Rosalía, un disco intriso d’iconografia sacra e riferimenti alla musica classica, è solo uno degli ultimi esempi.

Anche in Italia nel 2025 è successa una cosa simile con La Niña, che con il suo album Furèsta (pubblicato il 21 marzo 2025, il titolo in italiano si può tradurre con “selvatica”) ha raggiunto un successo a sorpresa di pubblico e critica con uno stile che mescola il pop, il folclore rurale campano e l’elettronica. È pur sempre sacralità, anche se legata ai riti della società contadina.

In dieci brani coinvolgenti e orecchiabili, cantati quasi interamente in dialetto napoletano, La Niña, nome d’arte di Carola Moccia, nata nel 1991 a San Giorgio a Cremano, canta di donne indomite, serpi velenose e terremoti. In alcuni brani, come nell’iniziale Guapparìa, sembra di ascoltare delle antiche tammurriate, anche se l’elettronica e l’autotune tengono questi brani ancorati alla contemporaneità. In ’O ballo d’ ’e ’mpennate Moccia e Alfredo Maddaluno, suo compagno di vita e compositore che ha scritto il disco a quattro mani insieme a lei, hanno campionato addirittura gli zoccoli di un cavallo.

Il brano di Furèsta che più di altri è riuscito ad abbattere gli steccati, però, è Figlia d’ ’a tempesta, un’invettiva sull’emancipazione femminile – “Ha dato la vita e ce l’hanno luata nu milione ’e vote / Vestuta ’a puttana e vestuta da sposa” (ha dato la vita e gliel’hanno tolta milioni di volte / vestita da puttana e vestita da sposa) – e un invito alle donne a ribellarsi, a farsi sentire. Oltre a essere ormai uno dei punti fermi del repertorio della cantante, è diventato anche un canto di protesta nei cortei femministi in Italia.

“Sono sconvolta da com’è stata accolta quella canzone negli ultimi mesi. Io l’avevo scritta semplicemente per denunciare l’orrore che il corpo della donna subisce ogni giorno. E sono rimasta davvero colpita da com’è stato recepito il disco in generale. All’inizio l’avevo pensato come il mio addio alla musica, perché dopo alcuni anni d’insuccessi ero convinta che non sarei mai riuscita a procurarmi da vivere con l’arte. Invece questo album ha cambiato tutto”, racconta la cantante, seduta su un divano nei camerini dell’Atlantico di Roma, un locale nel quartiere dell’Eur, un paio d’ore prime del suo concerto.

Indossa una felpa marrone con il cappuccio, e mentre parla ogni tanto si aggiusta i lunghi capelli neri e ricci. “Questo album è un lavoro d’immedesimazione e di empatia. Nasce dall’ascolto e non dall’urgenza di dire le cose. Ma quando ti metti in ascolto finisci per diventare una sorta di portavoce e quindi certi messaggi vengono fuori in modo spontaneo. Se faccio musica, del resto, non posso non affrontare temi come l’emancipazione, altrimenti preferirei stare zitta. Questo album è un inno all’indomabilità, del resto. Il titolo Furèsta si riferisce a un’espressione che usavano mia mamma e mia nonna parlando delle mie gatte. In Campania si dice che una gatta è furèsta per dire che è indomabile, che ti fa dannare”.

La data di Roma è la penultima del tour del disco. I concerti, partiti a maggio e approdati anche in Europa, hanno fatto registrare spesso il tutto esaurito. E durante le date sono successe cose inattese. “Stromae è venuto nei camerini dopo la nostra esibizione in Belgio, e mi ha detto che si era comprato il mio disco e l’aveva ascoltato un sacco. Ora, anche grazie alle belle parole che ha speso nei nostri confronti, siamo entrati nella sua agenzia di booking in Europa. Siamo anche in contatto con un agente statunitense per fare della date in Nordamerica”, racconta la Niña, che cerca di parlare il più piano possibile per non affaticare la voce.

“Sai, il concerto è molto intenso e faticoso. Non è semplice portare sul palco il suono del disco. È servito quasi un anno di prove casalinghe per mettere a punto gli arrangiamenti”. I concerti, dopo quello del 19 dicembre a Molfetta (Bari), in realtà si fermeranno solo per qualche mese, perché questa estate sono previste altre date nei festival italiani e all’estero. E poi, forse, anche un altro album. “Sto scrivendo moltissimo”, confessa l’artista.

E i testi, invece? Che lavoro c’è dietro? “Ho letto molto, come sempre. Da laureata in filosofia, mi appassiona soprattutto la saggistica. Per Furèsta poi mi sono ispirata alle villanelle (una forma di poesia musicale popolare e semipopolare) anonime o ad alcune moresche (antiche danze introdotte in Spagna dagli arabi e diventate popolari in Europa) del quattrocento o del duecento. Una delle villanelle più antiche, per esempio, parla della terra e del sopruso dell’invasore è Il canto delle lavandaie del Vomero, che secondo gli storici è il primo canto popolare mai documentato al mondo. In quel brano i contadini si lamentavano del trattamento poco corretto ricevuto dai catalani di Alfonso d’Aragona, che avevano promesso terre e non le avevano concesse. In un certo senso è un pezzo molto attuale. Una canzone del mio disco, Oiné, invece si riferisce in maniera scherzosa ma anche un po’ acida a una donna che fa soffrire un uomo e si rifà a Fra quante donne sono al mondo belle, una villanella del quattrocento”.


Furèsta, a proposito di arcaico e mondo contadino, è pieno di animali. Il brano finale, Pica pica, è dedicato a una gazza, mentre altrove affiorano altri uccelli, ma anche serpi. “Volevo animalizzare l’uomo e umanizzare l’animale. Mi è servito per togliere la patina moralista dalla mia musica. Quando l’arte ha troppo pathos e troppa retorica mi annoia. Mi servivano canzoni piene di mistero, ma anche carnali. E gli animali sono perfetti in questo senso, perché sono creature che hanno a che fare con il mito. Pensa alla cultura egizia, è piena di animali. La mitologia è un modo per descrivere il mistero senza cercare di risolverlo, ed è un peccato che questo aspetto si sia perso nella società contemporanea. Nel mio piccolo, cerco di riportare in vita quel mistero”.

Il terremoto

Sono le 21.30 quando La Niña sale sul palco. Con lei ci sono Alfredo Maddaluno, alla tastiera e ad altri strumenti, e tre coriste e polistrumentiste: sono tre musiciste napoletane, Francesca Del Duca, Denise Di Maria e Lidia Palumbo. Anche loro bravissime, per il modo in cui si alternano tra canti, nacchere, tammorra, chitarra e flauto. Ricoprono, in un certo senso, la funzione del coro nel teatro greco, commentando e amplificando le parole della Niña.

Tutto il concerto, come si capisce dal primo brano Sanghe, è molto teatrale, ma anche energico. La Niña canta con voce precisa e potente, ma è anche capace di gesti ampi, e dimostra una notevole presenza scenica. Dialoga molto col pubblico e sa cogliere l’occasione per lanciare dei messaggi, come quando insieme al suonatore di oud palestinese Tareq Abu Salameh – con cui esegue Salomè, frutto di una chiara apertura della sua musica al Mediterraneo e al Medio Oriente – ricorda che l’olivo “è la pianta che nessuno riuscirà a sradicare”.

Il concerto è costruito su un crescendo che culmina nel trittico inaugurato da _Trem__m_’, uno dei pezzi migliori del disco, che dal vivo sembra capace proprio di scuotere la terra. La Niña, del resto vive a Pozzuoli, un posto dove la terra trema letteralmente con terribile frequenza. A _Trem__m_’ seguono _Guapparìa_, un pezzo che a suo modo denuncia l’eccessiva romanticizzazione della vita di strada e della malavita, e le già citata _Figlia d’ ’a tempesta_, cantata a squarciagola da gran parte delle circa duemila persone presenti dell’Atlantico, tra cui molte ragazze.

È questo, forse il brano più intenso della serata, anche se Storia di Afrodite, tratto dal precedente album Vanitas, non è da meno nel suo racconto di una donna vittima di stupro che si vendica del suo aguzzino evirandolo. La conclusione, bellissima anche questa, è affidata a Manalonga, canzone ispirata a una storia del folclore beneventano su una strega che vive dentro un pozzo. “Devo avere paura di Manalonga e non di chi ce l’ha buttata, in quel pozzo?”, si chiede La Niña prima d’intonarla, dimostrando ancora una volta che, come una gatta, anche lei coltiva il gusto di essere indomabile.

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