×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

La carne artificiale sta arrivando

Laurence Mouton, PhotoAlto/Getty Images

“Stiamo chiudendo per sempre l’era dei combustibili fossili”, ha dichiarato all’inizio di novembre Dan Jørgensen, il ministro dell’ambiente danese. Si riferiva al fatto che il principale produttore di petrolio e gas dell’Unione europea stava ufficialmente uscendo dal settore petrolchimico dopo ottant’anni.

Rimane ancora petrolio nei fondali del mare del Nord, al largo della costa occidentale della Danimarca, ma il governo ha appena cancellato una gara d’appalto con cui avrebbe assegnato licenze per lo sfruttamento di petrolio e gas. Non ci saranno altre attività esplorative, e non sarà costruita nessuna nuova piattaforma.

Non è una notizia straordinaria come sembra, visto che i tre principali produttori di gas e petrolio d’Europa – Russia, Norvegia e Regno Unito – sono ancora attivi in questo settore. Ma adesso anche Oslo e Londra stanno discutendo dell’opportunità di lasciare per sempre sotto terra una parte del loro gas e petrolio. Sarebbe un passo nella giusta direzione.

È così che generalmente funziona il progresso nella lotta per fermare il riscaldamento globale: un piccolo passo alla volta. Forse troppo piccolo, e troppo tardi. Ma negli stessi giorni abbiamo assistito a qualcosa di molto più significativo in quello che potremmo definire il fronte del cibo e del clima: per la prima volta un ristorante ha servito carne artificiale.

I prezzi scendono
Tra le principali cause di emissione di gas serra prodotta dalle attività umane c’è l’agricoltura. E oltre metà dei gas serra legati alle forniture alimentari proviene dalla produzione della carne. È la parte del rompicapo più difficile da risolvere, perché le persone sono molto legate al consumo di carne, e non esiste un valido sostituto. Almeno fino a poco tempo fa.

Adesso ce ne sono molti. Il 3 novembre, vicino a Tel Aviv, è stato inaugurato un ristorante di hamburger chiamato The Chicken. Il luogo ha un aspetto piuttosto ordinario, tranne che per un muro di vetro nero, attraverso il quale si possono osservare persone in camice di laboratorio muoversi tra grandi cisterne d’acciaio inossidabile, chiamate bioreattori. È lì che producono il pollo.

Si tratta di pollo “coltivato”: cellule vive di vero pollo allevate in una soluzione, che contiene tutti i necessari nutrienti e che raddoppia di volume ogni giorno. Niente contaminazione batterica da scarti animali, niente ormoni e antibiotici per accelerare la crescita e rallentare la diffusione di malattie, niente terreni usati per coltivare mangimi: niente 130 milioni di polli macellati ogni giorno.

Per ora SuperMeat, l’azienda che collabora con il ristorante, ha deciso di continuare a usare carne vera per i suoi hamburger. Ma dal punto di vista tecnico nessun ostacolo le impedisce di usare petti di pollo coltivati dotati della consistenza e del sapore dei polli reali. Per il momento l’azienda li sta regalando (solo alle persone che ricevono un invito) e non vendendo, perché l’autorità di regolamentazione israeliana non ne ha ancora approvato la vendita.

La carne e la produzione casearia da sole causano quasi il 15 per cento delle emissioni di gas serra

Quel momento arriverà presto, ma probabilmente dovranno continuare a regalarli per un po’, perché la produzione di ogni hamburger costa circa 35 dollari. Un prezzo molto alto, ma già più basso rispetto ai trecentomila dollari del primo hamburger di manzo coltivato, creato nel 2013. Ido Savir, l’amministratore delegato di SuperMeat, pensa che la carne “coltivata” (o sarebbe meglio dire creata in laboratorio: la terminologia sta ancora evolvendo) costerà come la carne macellata nel giro di sei o sette anni.

Le cose si muovono velocemente. Appena un giorno prima dell’inaugurazione di The Chicken, l’azienda statunitense Eat Just ha ottenuto l’autorizzazione da parte delle autorità per vendere i suoi “bocconcini di pollo” coltivati, prodotti in un bioreattore da 1.200 litri, a Singapore. E sempre in Israele, a novembre la Aleph Farms ha svelato le sue prime bistecche di manzo prodotte in laboratorio (anche se preferiscono il termine “biofarmed”, bioallevate).

Transizione globale
L’innovazione della Aleph consiste nel creare manzo coltivato che ha però la forma e la consistenza di una bistecca tradizionale (tutti gli operatori del settore potrebbero superare una prova del gusto, poiché stanno producendo con vere cellule bovine). Il processo è concepito per una produzione su vasta scala, lo hanno brevettato in tutti i modi possibili, e faranno un lancio di prova del prodotto alla fine del 2022.

Sarà questo il futuro. Tutte le start-up più promettenti stanno attirando grandi investimenti dai colossi dell’alimentazione, come la Cargill (il padrino dell’Aleph). Siamo all’inizio di una transizione globale ad alta velocità, almeno per il mercato di massa: passeremo dall’allevare, nutrire e macellare bovini, suini e ovini alla creazione di una versione “coltivata” della stessa carne.

Quanto tempo ci vorrà? Tra i dieci e i quindici anni. Deve succedere velocemente perché la carne e la produzione casearia da sole causano quasi il 15 per cento delle emissioni di gas serra. Anche se molte più persone diventassero vegetariane o vegane, il problema non sarebbe risolto, perché i prodotti non animali dipendono ancora dalla coltivazione sul terreno, e anche perché le persone sono molto conservatrici nella loro alimentazione.

È così che salveremo l’Amazzonia, dove le foreste sono abbattute per coltivare la soia con cui nutrire il bestiame del mondo. È così che renderemo obsoleta metà della produzione agricola del mondo.

Se quei terreni saranno riforestati, avremo risolto molti problemi in un colpo solo. Ci metteremmo anche nella condizione di ridurre le emissioni di gas serra abbastanza velocemente da evitare di far salire la temperatura globale di oltre due gradi centigradi, cosa che scatenerebbe l’inferno sulla Terra.

A quel punto ci resterà da capire come dare da vivere a circa un miliardo di famiglie di coltivatori e allevatori. Ma questo è un problema a cui penseremo dopo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

pubblicità