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Perché non riusciamo a smettere di guardare le serie sugli omicidi

Una scena della serie Making a murderer. (Dr)

Se siete come me, non c’è niente di meglio che mettersi sul divano dopo una lunga giornata di lavoro e guardare Investigation discovery (Id).

Investigation discovery è una rete televisiva via cavo di proprietà di Discovery communication che trasmette quasi esclusivamente documentari true crime. Perlopiù omicidi, con un pizzico di rapimenti, stalking e sparizioni irrisolte. È la mecca televisiva degli appassionati di storie poliziesche hard boiled, anche se di livello piuttosto scadente. È pacchiana e affascinante, insomma il piacere proibito perfetto.

Non è sempre stato così. La rete televisiva è nata negli anni novanta come Discovery civilization network, con una programmazione dedicata a documentari e ricostruzioni storiche. Qualche anno più tardi, e dopo una collaborazione fallita con il New York Times, Discovery communications ha ingaggiato lo studio creativo Tröllback + Company per cambiare la rete.

Nel 2006, un canale nato con l’ambizione di creare contenuti di qualità si era convertito al genere più basso: il true crime. Dopo il cambio di rotta, Id si è fatta strada nel mondo dell’intrattenimento via cavo costruendosi un pubblico affezionato, soprattutto femminile.

Negli ultimi anni il true crime è diventato quel contenuto sofisticato che l’accordo tra Discovery e il New York Times avrebbe voluto creare

La crescita di Investigation discovery riflette l’interesse culturale nei confronti dei programmi true crime. Sono decenni che il genere gode di grande popolarità, ma negli ultimi anni questo universo è diventato esattamente quel tipo di contenuto sofisticato che la partnership tra Discovery e il New York Times avrebbe voluto creare.

Questo cambiamento è il risultato di diversi fattori. Nel 2013 The Atlantic ha pubblicato in copertina l’articolo Murder by Craigslist (Omicidi attraverso Craigslist) di Hanna Rosin: è la storia di Richard Beasley e del suo complice adolescente Brogan Rafferty, che usavano gli annunci su Craigslist per attirare degli uomini che venivano poi orribilmente assassinati. Finire in copertina su una delle riviste più rispettate del paese è stato un gran colpo per il genere true crime.

“L’articolo di Rosin si apriva con un caso che sembrava destinato a diventare materiale da tabloid”, scrive Sarah Stillman sul New Yorker, “ma finiva per offrire al lettore qualcosa di totalmente diverso: usava gli omicidi per raccontare la vita di persone della classe media che non hanno più reti di protezione economica”.

L’anno successivo Serial, uno spin-off della popolarissima trasmissione This american life della Chicago public radio, ha assunto un ruolo importante nel mondo della cultura. L’omicidio di Hae Min Lee, e la possibile e forse ingiusta condanna del suo ex ragazzo Adnan Syed, hanno conquistato l’attenzione di ascoltatori in tutti gli Stati Uniti, dando origine a centinaia di articoli. Ha anche garantito alla conduttrice Sarah Koenig una seconda stagione, spingendo molte altre case di produzione a seguire il suo esempio.


La nuova serie di successo di Netflix, Making a murderer (attenzione: segue possibile spoiler) sfrutta il fenomeno di Serial raccontando la storia di Steven Avery, un uomo del Wisconsin condannato per l’aggressione sessuale e il tentato omicidio di Penny Beerntsen negli anni ottanta. Avery è stato scagionato nel 2003, e poi accusato dell’omicidio di un’altra donna, Teresa Halbach, appena due anni dopo. Making a murderer segue gli eventi apparentemente inverosimili che hanno portato al secondo processo di Avery, valutando l’ipotesi che le autorità della contea di Manitowoc, nello stato del Wisconsin, abbiano manipolato le prove per riportare Avery in prigione.

Non è la prima volta che il true crime entra nella sfera della cultura pop più raffinata. Viene in mente il thriller di Truman Capote del 1960, A sangue freddo, oppure Helter skelter (1974) di Vincent Bugliosi, che raccontava gli omicidi della famiglia Manson e rimane il libro di true crime più venduto della storia degli Stati Uniti. Edmund Pearson, considerato da molti come l’uomo che ha lanciato il giornalismo true crime negli anni venti, ha pubblicato i suoi lavori in testate prestigiose come The New Yorker e Vanity Fair.

E quindi cos’è successo tra la metà del ventesimo secolo, quando il true crime godeva di buona reputazione artistica, e l’attuale rinascita del genere?

Probabilmente è cresciuto l’interesse del pubblico per le storie criminali di valore sociale. Negli anni ottanta e novanta era stata l’ossessione culturale per casi clamorosi e sensazionalistici, come l’omicidio di Jon Benét Ramsey e il processo a O.J. Simpson, a definire il genere. Il nuovo filone del crimine da intrattenimento sta prendendo una strada diversa. Invece di feticizzare il criminale e il suo crimine, Serial e Making a murderer si soffermano a lungo sul contesto nel quale hanno luogo queste atrocità e sul modo in cui la società li affronta, chiedendosi se il nostro modo di amministrare la giustizia sia davvero sensato.

Sempre più spesso il true crime solleva dubbi sul sistema di giustizia penale statunitense e il modo in cui s’impone il rispetto della legge

Serial approfondisce i preconcetti sulle relazioni sentimentali interrazziali, la cultura musulmana americana e la mascolinità degli adolescenti oggi. Making a murderer analizza il bisogno della società di arginare i cosiddetti “indesiderabili” all’interno delle diverse comunità negli Stati Uniti e il modo in cui la moralità e i pregiudizi possano profondamente condizionare i processi giudiziari.

Spesso il true crime è stato il territorio delle mezze verità, della spettacolarizzazione, della forzatura dei fatti e delle insinuazioni. Oggi, sempre più spesso, solleva dei dubbi sul sistema di giustizia penale statunitense e il modo in cui s’impone il rispetto della legge.

Questi dibatti, alimentati dai mezzi di comunicazione, possono portare grandi risultati. Dopo di più 15 anni dalla sua condanna, Adnan Syed ha potuto ottenere un’udienza che permetterà ai suoi avvocati di presentare nuove prove in suo favore. Dopo l’uscita di Making a murderer, 160mila persone hanno firmato delle petizioni a favore della scarcerazione di Steven Avery.

Uno degli avvocati della difesa di Avery, Dean Strang, ha dichiarato al New York Daily News: “Credo che il film sia efficace nel sollevare questioni più ampie, che avrebbero potuto accadere ovunque. Informalmente, stiamo ancora lavorando gratis per lui. Ma ho il sospetto che presto il lavoro diventerà più formale”.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato su Quartz.

This article was originally published in Quartz. Click here to view the original. © 2015. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency

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