×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Noi sopravvissuti alle prigioni di Assad ricostruiremo la Siria

Stoccolma, Svezia, 11 novembre 2020. Omar Alshogre mostra una sua foto appena uscito dalla prigione siriana da cui è stato liberato nel 2015 dopo tre anni di reclusione. (Jonathan Nackstrand, Afp)

Sono passati dieci anni da quando ho assaporato per la prima volta la libertà. Il 18 marzo 2011 ricevetti una telefonata da mio cugino Bashir, allora ventenne. Con voce tremante mi chiedeva di raggiungerlo nel centro di Baniyas, una città a dieci minuti dal mio villaggio, Al Bayda. “Gli uccelli si stanno radunando, devi venire”, mi disse.

Avevo quindici anni ma compresi il significato delle parole in codice. Avevo visto in tv le proteste scoppiate in Tunisia ed Egitto. Il 6 marzo erano arrivate in Siria, dove gli abitanti di Daraa avevano protestato contro l’arresto e la tortura di quindici studenti che avevano realizzato dei graffiti contro il governo. Il 15 marzo c’erano stati altri disordini a Damasco. Avevo capito che era arrivato il turno della mia città.

Mio padre, un militare in pensione, aveva intercettato la nostra conversazione. “Resta a casa”, mi disse, “sta’ al sicuro”. Conosceva fin troppo bene la corruzione e la violenza del regime visto che, alcuni decenni prima, i suoi cugini erano stati imprigionati per dodici anni. In quel momento cercava di proteggere me e i miei fratelli.

Ma io volevo disperatamente partecipare a qualcosa di così importante. Non tanto per la corruzione del regime – ormai talmente normalizzata che quasi non la si notava più – ma perché tutti i miei compagni di classe e amici vi partecipavano, e io volevo unirmi a loro. Mio padre credeva nella necessità di una rivoluzione, ma aveva paura per me. Tutta l’eccitazione che provavo in quel momento la incanalai nello sforzo di convincerlo a lasciarmi andare. Forse fu la speranza che vide nei miei occhi a fargli cambiare idea. Alla fine accettò di accompagnarmi in moto.

Per strada pensavo che si sarebbe unito a noi ma, una volta arrivati, si limitò a farmi scendere dicendo: “Nasconditi il viso, potrebbe morire un milione di persone”. Lo guardai allontanarsi in moto.

Una rosa bianca e il sentimento di libertà
Mentre mi avvicinavo ai manifestanti, qualcuno mi mise in mano una rosa bianca. Ne ricordo nitidamente l’odore, che si confondeva con la brezza del mare. Mi sembrava che aggiungesse bellezza alla protesta e alle nostre richieste di libertà. Quando intonavo la parola “libertà” in arabo e in inglese, sentivo in me una forza incrollabile. Ma nella folla serpeggiava anche la paura. Mi rendevo conto che i manifestanti si guardavano nervosamente intorno, da un lato all’altro, come se stessero aspettando qualcosa.

Poi quel qualcosa è arrivato: migliaia di soldati dell’esercito e agenti dei servizi segreti, tutti armati. Ero confuso. Nonostante tutte le storie che avevo sentito, non avevo mai assistito in prima persona alla violenza del regime. I manifestanti mantennero un atteggiamento pacifico, scandendo lo slogan: “L’esercito e il popolo sono fratelli”. Ma quel giorno i “fratelli” aprirono il fuoco, uccidendo alcune persone e ferendone molte di più. Tra le vittime c’era il mio amico di scuola, Alaa, 16 anni.

I manifestanti furono dispersi. Alcune donne ci aprirono le porte per farci nascondere nelle loro case. Ricordo la sensazione di gratitudine provata nel trovare rifugio a casa di estranei. Dopo, quando i soldati se ne andarono, tornammo in centro per continuare la nostra manifestazione.

A maggio Baniyas fu assediata per sette giorni dai soldati, che uccisero altre persone. Il regime disse che erano dei “terroristi” ma l’opposizione sapeva che erano manifestanti per la democrazia.

Alcuni soldati mi sferravano calci sul capo e saltavano sulla mia testa e sul mio corpo, obbligandomi a gridare la mia lealtà al presidente

Ma prima che succedesse tutto ciò, fui arrestato la prima volta. Il 12 aprile la mia famiglia, non sapendo che le forze governative erano arrivate nel nostro villaggio, mi mandò a comprare il pane. I soldati mi legarono le mani dietro la schiena e fui gettato per terra insieme a più di cinquecento uomini, catturati nella stessa circostanza.

Alcuni soldati mi sferravano calci sul capo e saltavano sulla mia testa e sul mio corpo, obbligandomi a gridare la mia “lealtà” al presidente: “Dio, Siria e Bashar!”. Avevo scandito quelle parole nei precedenti cinque anni, all’inizio di ogni giorno di scuola. Solo quella volta capii la profonda brutalità che nascondevano. Fui rinchiuso in un centro di detenzione e torturato per due giorni. Fui liberato solo dopo aver rilasciato una confessione falsa.

Nel corso dell’anno successivo fui arrestato altre cinque volte e trattenuto per giorni o settimane, finché i miei genitori riuscivano a corrompere alcuni ex colleghi di mio padre, che mi lasciavano andare. Fui obbligato a firmare delle carte in cui dicevo che non avrei più manifestato. Ma non smisi di farlo.

Nel braccio della morte lenta
Nel novembre del 2012 fui arrestato per l’ultima volta, insieme ai miei cugini Bashir, 22 anni, Rashad, 19, e Noor, 17. Fummo trasferiti da un carcere all’altro, fermandoci alla fine nel famigerato braccio 215 di Damasco, che avevamo soprannominato il “braccio della morte lenta”.

Vidi Rashad e Bashir morire in prigione, e ho sentito che anche Noor è stato ucciso. Mentre ero in carcere, il regime uccise mio padre e i miei due fratelli, il quindicenne Osman e il diciannovenne Mohammed, e diede fuoco alla nostra abitazione. Bombardò la mia scuola, arrestò i miei amici d’infanzia e massacrò la gente nel mio villaggio. Mia madre e le mie sorelle riuscirono a fuggire in Turchia.

In prigione ho imparato più cose sulla realtà della dittatura di quante ne avrei potute imparare da fuori. Le guardie avevano creato un ambiente nel quale dovevi accanirti sugli altri se volevi sopravvivere. I miei cugini e i miei compagni di cella erano costretti a colpirmi più forte che potevano. Chi voleva mangiare doveva rubare il pasto a qualcun altro. Lo stesso valeva per bere. Da bambino avevo imparato che i padri erano disposti a sacrificare la vita per i figli. Ma in prigione ho visto un padre uccidere suo figlio per sopravvivere. Ho visto un ragazzo battersi con il gemello per uno spazio dove sedersi, perché le celle erano troppo piccole per accogliere tutti i prigionieri. In quelle carceri si muore nel dolore o si vive con il dolore e il senso di colpa.

Nel buio e nella sporcizia della mia cella feci molti incubi: guardie che mi mandavano a morte o mi costringevano a uccidere amici e familiari. Ma feci anche altri sogni. Certe notti vedevo il dittatore sotto processo, lo affrontavo in tribunale, e veniva condannato alla prigione.

L’11 giugno 2015, dopo tre anni di reclusione, fui liberato da alcune guardie che erano state corrotte da mia madre. Per farmi uscire misero in scena una falsa esecuzione. Dieci giorni dopo arrivai in Turchia, dove ritrovai mia madre. Ma per ricevere le cure mediche per la tubercolosi che avevo contratto in prigione dovetti raggiungere la Svezia, attraversando il Mediterraneo su un gommone.

In Europa mi sono costruito una nuova casa e una nuova vita. Ma quello che ho vissuto in prigione continua a ossessionarmi: negli incubi notturni senza fine e nella consapevolezza che devo sempre guardarmi le spalle. Uno dei miei ex carcerieri mi ha trovato sui social network. Mi ha chiamato, dicendomi di non aprire bocca e minacciandomi. In quel momento tutto il dolore è riaffiorato, ma in qualche modo ho avuto la lucidità di registrare la chiamata, sperando di usarla in futuro in tribunale.

Secondo la propaganda del regime, i siriani che hanno lasciato il loro paese l’hanno dimenticato, ma non è così. Lo ricordiamo ancora e lavoriamo duro per diventare le persone che ricostruiranno la Siria al momento dovuto.

Negli ultimi anni io e altri sopravvissuti abbiamo offerto varie testimonianze – alla polizia svedese, ai magistrati tedeschi e ai funzionari europei che indagano sui crimini di guerra – sulla brutalità del regime, affinché si possano aprire dei processi. Ne sono derivate una serie d’incriminazioni per crimini di guerra contro alcuni siriani residenti in Europa, come Eyad al Gharib, un ex agente dell’intelligence arrestato in Germania. A febbraio Al Gharib è stato condannato da un tribunale tedesco a quattro anni e mezzo di carcere.

Io e gli altri siriani abbiamo usato il trauma per farci forza. Ci siamo adattati ai nostri incubi trasformandoli in nuovi sogni. Abbiamo fatto in modo che la nostra paura ci spronasse. Ho visto mia madre che, nonostante i lutti, era riuscita a cominciare una nuova vita in due paesi diversi, la Turchia e la Svezia. È stata lei a farmi sentire al sicuro; era lei che potevo chiamare quando avevo gli incubi; è lei che mi ha detto: “Quello che hai vissuto, e quello che io ho vissuto, vale la pena ricordarlo”.

Vale la pena ricordarlo.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Quest’articolo è uscito sul sito di Al Jazeera con il titolo “We survived Assad’s prisons and we will rebuild Syria”.

Da sapere
Dieci anni in Siria

Sono passati dieci anni da quando le rivolte pacifiche contro il regime di Bashar al Assad sono sfociate in una guerra civile, che ha causato quasi mezzo milione di morti e fatto scappare dal paese metà della popolazione. La Siria, ormai al collasso economico, è divisa: un gruppo legato ad Al Qaeda controlla la provincia nordoccidentale di Idlib; i ribelli sostenuti dalla Turchia occupano alcuni tratti lungo il confine turco mentre il nordest del paese è sotto il controllo delle forze curde siriane, appoggiate dagli Stati Uniti. Assad controlla il resto.
Marzo 2011 A Daraa, nel sud del paese, un gruppo di ragazzi è arrestato per aver realizzato dei graffiti contro il governo. Seguono proteste pacifiche a Damasco e Daraa, dove il 18 marzo la polizia uccide quattro manifestanti. Le proteste aumentano e la repressione s’intensifica.
Aprile 2011 Le forze di sicurezza disperdono un sit-in a Homs ispirato a quello di piazza Tahrir al Cairo, in Egitto.
Luglio 2012 Quattro alti funzionari, tra cui il cognato di Assad e il ministro della difesa, restano uccisi in un attentato in un edificio della sicurezza nazionale a Damasco. Intanto il conflitto si estende ad Aleppo.
Agosto 2012 Il presidente statunitense Barack Obama stabilisce l’uso di armi chimiche come “linea rossa” da non varcare per evitare un intervento internazionale.
Marzo 2013 Un attacco uccide 26 persone nella città settentrionale di Khan al Assal. Una successiva indagine delle Nazioni Unite accerta l’uso del gas sarin, ma non identifica il responsabile dell’attacco.
Maggio 2013 La città di confine Al Qusayr è conquistata dal gruppo libanese Hezbollah, entrato ufficialmente nel conflitto a sostegno di Assad. 
Agosto 2013 Nella Ghouta, la regione agricola intorno a Damasco, un attacco chimico uccide centinaia di persone. La responsabilità è attribuita alle forze governative siriane. Obama non ordina, però, attacchi punitivi.
Settembre 2013 Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ordina a Damasco di distruggere il suo arsenale di armi chimiche.
Ottobre 2013 La Siria firma la convenzione che vieta di produrre e utilizzare armi chimiche.
Giugno 2014 L’opposizione sostiene che il governo abbia conservato delle scorte di armi chimiche. Intanto il gruppo Stato islamico (Is) proclama la nascita del califfato nelle aree che controlla in Iraq e in Siria.
Settembre 2014 Gli Stati Uniti attaccano obiettivi dell’Is in Siria.
Marzo 2015 Un gruppo affiliato ad Al Qaeda, il Fronte al nusra, prende il controllo di Idlib.
Settembre 2015 La Russia lancia attacchi aerei in appoggio di Assad.
Agosto 2016 Le forze turche riescono a sottrarre all’Is alcune aree lungo il confine settentrionale.
Dicembre 2016 Dopo un’offensiva governativa sostenuta dalla Russia, i ribelli siriani lasciano i quartieri di Aleppo.
Aprile 2017 La città di Khan Sheikhun, controllata dalle forze dell’opposizione, subisce un attacco in cui, secondo i medici, è stato impiegato gas sarin. Testimoni lo attribuiscono alle forze russe e siriane, che negano ogni responsabilità. Gli Stati Uniti rispondono sferrando il loro primo attacco missilistico in territorio siriano. 
Maggio 2017 I ribelli abbandonano l’ultimo quartiere sotto il loro controllo a Homs, un tempo la “capitale della rivoluzione”.
Gennaio 2018 Nell’enclave di Afrin, la Turchia intraprende una grande operazione militare contro i combattenti curdi siriani.
Aprile 2018 Il potere di Assad cresce con l’occupazione dei sobborghi di Damasco e della Ghuta orientale. Stati Uniti, Francia e Regno Unito attaccano la Siria come rappresaglia in seguito a un presunto attacco chimico governativo del 7 aprile a Damasco.
Ottobre 2019 Con il ritiro degli Stati Uniti dalla Siria settentrionale, la Turchia riprende l’offensiva contro i curdi.
Marzo 2020 Russia e Turchia raggiungono un accordo sul “cessate il fuoco” nel nordovest del paese, dove rischiavano di entrare in conflitto diretto.
Giugno 2020 Gli Stati Uniti annunciano l’avvio di una “campagna di pressione politica ed economica”: entrano in vigore nuove sanzioni contro individui e imprese che sostengono il regime di Assad.–Ap


Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Medio Oriente. Ci si iscrive qui.

pubblicità